Ostia, riforestazione a Castelfusano. Ma cambia il paesaggio

Un’analisi degli interventi di riforestazione in corso in una delle pinete del litorale

Foto di Luigi Pompei

Riforestazione ai nastri di partenza. Nei giorni scorsi sono stati piantati una cinquantina di alberi, lungo la fascia di pineta che costeggia la Cristoforo Colombo e che fu colpita dal gravissimo incendio del 4 luglio del 2000. Si tratta di pinus halepensis, nome comune: pino di Aleppo, nome che deriva dall’omonima città Siriana, anche se la sua distribuzione si estende al di fuori della Siria, fino a occupare gran parte del bacino del mediterraneo.

Un’analisi degli interventi di riforestazione in corso in una delle pinete del litorale

Si tratta, con ogni probabilità di una fase sperimentale, atta a verificare sul campo la teoria che il Pino d’Aleppo appare resistere molto meglio all’attacco della cocciniglia tartaruga (toumeyella parvicornis), che, come noto sta attaccando pesantemente il nostro pino da pinoli (Pinus pinea), provocando la morte di moltissimi pini, elementi insostituibili del nostro paesaggio.

La messa a dimora di questi pini d’Aleppo fa parte del Piano di forestazione straordinaria della Città Metropolitana di Roma finanziato con i fondi stanziati con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e, grazie ai quali, è previsto l’arrivo di oltre un milione di alberi nei prossimi mesi (leggi qui).

“Resta il fatto che Il pino di Aleppo -dice l’architetto del paesaggio Franco Pirone che abita da sempre a Ostia e conosce bene la pineta di Castel Fusano- non ha la stessa valenza paesaggistica del pino da pinoli. E’ noto che sia resistente all’attacco da parte della cocciniglia tartaruga ma anche su questo non vi è piena certezza, e comunque si tratta di una specie che non fa parte del nostro paesaggio. Mi auguro che queste messe a dimora abbiano di fatto una valenza sperimentale perché immaginare che si possa ricostruire la pineta con il Pino d’Aleppo non ha alcun senso, per cui proseguire su questa strada sarebbe soltanto uno spreco di danaro pubblico che potrebbe essere impiegato con ritorni molto più proficui per la ricostruzione della porzione di territorio distrutto dagli incendi degli ultimi venti anni, e per curare, per quanto possibile i pini da pinoli che si trovano sia nelle fasce più esterne della pineta sia in ambito urbano”.

Per comprendere l’entità di queste valutazioni occorre precisare le pinete litoranee come le conosciamo, caratterizzate cioè dalla messa a dimora in forma intensiva di pinus pinea, risalgano ai primi anni del ‘700.

Ai tempi dell’antica Roma il pino era una pianta molto apprezzata, il suo frutto, il pinolo è sempre stato considerato un frutto prezioso, al punto che i soldati romani li mangiavano per ottenere una rapida dose di energia durante le marce o le battaglie, ma resta il fatto che i boschi litoranei erano formati principalmente da querce sempre verdi in associazione con querce spoglianti e altre specie arboree (la cosiddetta lecceta). I romani infatti sfruttavano le leccete come ceduo grazie alle caratteristiche, in particolare del leccio (Quercus ilex)   il cui legno è caratterizzato da una combustione lenta e duratura, ideale per alimentare, tra l’altro, le loro terme; inoltre il leccio produce ghiande che erano, e sono tutt’ora un nutrimento ideale per i maiali.

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Foto Luigi Pompei

Fu la famiglia di origine toscana dei Sacchetti, che agli inizi del 1700 iniziò a sfruttare la fascia costiera (che corrisponde più o meno all’area dell’attuale pineta di Castel Fusano) piantando  per esigenze di carattere produttivo, pini da pinoli, inframezzati da lecci da ceduo. Allo scopo di proteggere l’impianto arboreo dai venti salmastri, nella fascia più prossima al mare venivano piantati lecci e un’altra specie di pino: il Pinus pinaster (pino marittimo, albero tipico della macchia mediterranea). L’idea di realizzare pinete litoranee era ispirata a quanto realizzato in toscana sin dal 1400. Ai primi dell’800 i Sacchetti hanno venduto i terreni alla famiglia Chigi che a sua volta, intorno alla metà del 1930 cedette a sua volta al governatorato di Roma l’are, che di li a poco sarebbe stata aperta al pubblico, diventando nel 1980 “Parco urbano Pineta di Castel Fusano” e, dopo pochi anni trasformandosi in parte integrante della “Riserva naturale statale del litorale romano”

Visto che il pinus pinea vive mediamente cento/duecento anni, e soprattutto, produce pinoli tra i 40 e i 100 anni, l’impianto originario settecentesco è stato eliminato completamente e riproposto almeno due volte: dai Chigi nell’800 e dall’amministrazione romana negli anni che hanno preceduto la seconda guerra mondiale.

Ribadisco che il motivo principale per cui si è deciso di sperimentare il pino d’Aleppo -prosegue Pirone- è da individuarsi nella  migliore resistenza all’attacco dei parassiti, ma dobbiamo tener presente che l’habitus di questo pino è decisamente diverso da quello del pinus pinea, per cui, se parliamo del futuro della nostra preziosa area boscata, è chiaro che il criterio di scelta delle alberature deve essere basato su ben altri aspetti, il principale dei quali è il grado di naturalizzazione delle diverse specie. Sotto questo punto di vista è utile fare riferimento al progetto di riforestazione che fu redatto negli anni post incendio: in quel caso la scelta fu quella di prediligere la vegetazione potenziale (lecceta), destinando le fasce perimetrali, quelle cioè più visibili dalle strade, all’impianto di pini da pinoli, allo scopo di preservare la memoria paesaggistica dei luoghi, in questo caso l’impianto deve naturalmente rispettare, per quanto possibile, adeguate distanze dalle strade per permettere un naturale sviluppo dell’apparato radicale del pino, senza che questi danneggi il manto stradale.

“E’ questa una scelta senz’altro condivisibile, che deve essere aggiornata alla luce del problema toumeyella (il che vuol dire rimandare di qualche anno la messa a dimora dei pini da pinoli, in attesa che la cocciniglia tartaruga attenui la sua carica distruttrice) ed eventualmente sperimentando nuove specie arboree che rispondano a due importanti esigenze: una maggiore biodiversità e una adeguata resistenza ai periodi di siccità che stanno diventando sempre più lunghi e intensi”.

La biodiversità è fondamentale perché negli ultimi 50 anni abbiamo assistito a patologie devastanti che hanno colpito duramente la nostra vegetazione arborea: dalla grafiosi dell’olmo, al cancro colorato del platano, al cancro del cipresso, al blastofago (il tomicus), a cui si è aggiunta la Toumeyella. Parassiti che hanno colpito il nostro pino da pinoli e non solo. Consideriamo che il pinus pinea è talmente identificato con il nostro territorio che gli inglesi lo chiamano “ITALIC stone pine” per cui dobbiamo fare del tutto per conservare la sua presenza nel tempo”.

Bisognerebbe orientare l’uso delle risorse pubbliche al salvataggio mediante endoterapia dei pini dal grande ombrello più giovani

Vale la pena poi di sottolineare un altro aspetto. Finora abbiamo parlato del pinus pinea come albero a scopo produttivo. A partire dal secondo dopoguerra, invece il pino ha assunto una valenza paesaggistica, con la conseguenza che la tutela in qualche modo ha finito per “ingessare” questo albero emblematico, a tutto danno però del suo perpetrarsi nel tempo, poiché abbiamo visto quanto il suo rinnovo nel territorio richieda scelte drastiche che mal si conciliano con rigide esigenze di tutela.

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Foto di Luigi Pompei

Occorre fare un’ultima considerazione -precisa Pirone- se da un lato è corretto procedere a sperimentazioni come queste messe a dimora di pini d’Aleppo, nel prendere atto che la coperta è corta è giusto fare il possibile per investire denaro per tutelare i pini esistenti: in attesa di trovare un insetto antagonista che dia i suoi frutti, combattendo la Toumeyella, ma la strada sembra essere ancora lunga, bisogna procedere per quanto possibile con le cure endoterapiche a base di Abamectina dei pini che si trovano in ambiente urbano e dei pini posti sulle fasce perimetrali della pineta ricorrendo a una cura annuale che costa poco più di 50 euro per ogni albero.

Invece, far morire pini che si possono salvare significa perdere un preziosissimo patrimonio arboreo, sotto il duplice profilo ecologico e paesaggistico, e significa caricarsi di alti costi necessari alle procedure di taglio e smaltimento a norma di legge degli alberi morti e si consideri che parliamo di circa 1000 euro per ogni albero. E’ evidente la convenienza nell’attuare le cure preventive laddove sia possibile”.

C’è quindi da augurarsi -conclude l’architetto del paesaggio- che la piantumazione dei primi esemplari di pino di Aleppo sia destinata ad arricchire solo i margini più esterni della Riserva del litorale romano a meno che non si preferisca dissipare danaro pubblico”.

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