Il cordoglio degli amici: buon viaggio Marco Stefano

L’impossibilità di dargli l’estremo saluto a funerali ormai svolti, ha spinto amici e colleghi di Marco Stefano Vitiello a ricordarlo attraverso le nostre pagine

Marco Stefano Vitiello

La sua morte improvvisa ha colto tutti di sorpresa. La notizia del trapasso di Marco Stefano Vitiello (leggi qui), è piombata a Ostia, dove ha lasciato un’impronta profonda delle sue qualità, quando ormai i funerali si erano già celebrati a Taranto, città dove si era trasferito da qualche anno.

L’impossibilità di dargli l’estremo saluto a funerali ormai svolti, ha spinto amici e colleghi di Marco Stefano Vitiello a ricordarlo attraverso le nostre pagine

L’impossibilità di potergli rendere un’ultimo, estremo saluto, ha lasciato l’amaro in bocca a quanti in vita lo hanno stimato, apprezzato, amato. Ed è per questo che in tanti hanno riversato sui social e si sono rivolti alla nostra redazione per farne un ulteriore ricordo. Desiderio che condividiamo di cuore.

Maestro di giornalismo

Come Massimo Troisi – anche lui morto di sabato 4 a una manciata di chilometri da Ostia, anche lui per un attacco di cuore – Marco Stefano se n’è andato un po’ più in là. Perché da lontano, con il grandangolare, le cose e le persone si vedono meglio.

Era una persona buona, socievole, protettiva. Che faceva il tifo per gli altri. Forse troppo.

È stato uno dei miei maestri di giornalismo e di umanità. Con lui ho capito la differenza tra un fatto e una notizia, tra un’immagine costruita e un frammento di vita vera. L’ho conosciuto nel 1994 a Metropolit, il settimanale di Ostia dov’era direttore. Ma è nella redazione di Canale 10 News (allora si chiamava Tele Radio Ostia) che ho potuto lavorarci fianco a fianco ogni giorno, imparando quasi tutto quello che ancora oggi costituisce il mio bagaglio professionale.

Da Marco Stefano Vitiello ho appreso i fondamenti di un mestiere che avevo temporaneamente accantonato (dopo gli esordi al Corriere dello Sport, al Giorno e al Mattino di Napoli scrivendo di sport). È con lui che ho capito cosa significhi essere un cronista, la differenza tra la rassicurante “bianca” e l’inquietante “nera” (fatta di commissariati, ospedali e cadaveri), con chi andare a parlare quando sei sul luogo di un brutto evento, cosa osservare mentre tutti i tuoi colleghi guardano da un’altra parte. Cosa dire all’operatore di riprendere, prima che l’immagine giusta scompaia sotto gli occhi di chi deve raccontare.

Mi emoziono ancora oggi nel ricordare il mio primo servizio in video per il Tg: un collegamento da piazza Anco Marzio, davanti al Bar Sisto, per presentare un raduno d’auto d’epoca. «Donne e motori, gioie e dolori» mi fece dire (con mio grande imbarazzo) come attacco del pezzo, dopo avermi fatto accomodare sul cofano di una vettura d’epoca, attorniato dalle hostess d’ordinanza.

Da lì in poi è stata una crescita senza più cordone ombelicale, in giro per il litorale romano con qualsiasi temperatura, stagione, luce, colori e umanità. A raccontare storie che entravano nelle case all’ora del telegiornale delle 13.30. Fino alla conduzione in studio anticipata da prove, letture, pause, sguardi in camera ed emozioni ingoiate a pochi secondi dalla diretta. Sempre con lui al nostro fianco, a rassicurarci.

Poi c’era il Marco Stefano fuori dalla redazione. Un amico di cuore, un fratello maggiore, un vero coach che gioiva per i successi dei suoi giovani talenti. Un mentore di quelli da film hollywoodiano, che tra un racconto di un reportage in Pakistan e uno scatto rubato da dietro una colonna, ti affabulava lungo un sentiero dove il profumo di giornalismo era nettare per i nostri cuori acerbi.

Marco Stefano ha conosciuto mia moglie quando ancora eravamo fidanzati: è stato lui, unico presente non parente, ad averci scattato alcune foto il giorno della promessa di matrimonio in municipio a Ostia, su quella rotonda al termine della Cristoforo Colombo dove il mare – il suo mare che tanto adorava – faceva da sfondo ai nostri pensieri innamorati. È stato sempre lui, attraverso un suo fidato collaboratore, a scattare e confezionare le immagini che ci ritraggono felici in chiesa (e fuori) nel borgo rurale di Santa Maria di Galeria. Il suo prezioso regalo di nozze.

Per questo – e per molti altri ricordi che mi porterò dietro per sempre – la sua scomparsa improvvisa è stato un fulmine a ciel sereno che ha colpito frontalmente i nostri cuori. Lo ricorderò in mille momenti quotidiani. Quando mi chiamano «Dottore», rispondo sempre come rispondeva lui: «Dottore chi legge». Quando sono di fronte a un obiettivo (perfino quello della macchinetta delle fototessere) ruoto leggermente le spalle per – parole sue – non venire con la faccia “sparata”. Piccoli automatismi che me lo faranno sentire vicino anche adesso che sembra così lontano.

Ci mancherà quell’uomo con la barba bianca, la mazzetta di giornali sotto braccio per il caffè mattutino di via Pietro Rosa. Un uomo che lascia una figlia adorata di appena 18 anni. E che ogni volta in cui gli mandavamo via WhatsApp un ritratto di Ostia al tramonto, lui da Taranto ci rispondeva con un cuore. Fragile, sofferente. Ma grande.

Alessandro Dattilo, giornalista

Le zingarate

Caro Marco Stefano non voglio ricordarti come fotografo e ne come giornalista, voglio ricordarti come amico e mentore, come colui che è riuscito a lucidare quello che i miei genitori avevano già costruito, mi hai fatto conoscere il jazz che per uno di Ostia abituato a fare le “vasche” a via delle Baleniere in canotta forata capisci che è veramente tanto, ricordo le serate passate ad ascoltare George Gershwin che introduceva Manhattan il film capolavoro di Woody Allen davanti ad una pasta aglio, olio e peperoncino.

Con te ho superato le paure di rubare uno scatto, ho imparato a leggere la bellezza di un quadro di Pedro Cano, di un film di Antonioni, di una mostra di Salgado, ma anche a fumare una Camel senza filtro, l’unica sigaretta che nessuno poteva scroccare.

Sono stato il tuo primo pupillo dal reggerti la borsa (vuota perché avevi tutto al collo) fino a diventare un fotogiornalista passando da Metropolit a Epoca fino alle agenzie di stampa. Erano gli inizi degli anni 90 gli anni di tangentopoli, delle zingarate con Alessandro Fulloni, Mino Ippoliti, Giulio Mancini, Roberto Filibeck, Giulia Aubry, Massimiliano Di Giorgio, Gianluca Poscente, Alessandro Dattilo e tanti altri, insieme a te sono riuscito a fotografare l’impossibile, dalla cronaca nera, alla fotografia di moda. Non c’era giorno senza il nostro caffè a via dei Misenati o serata a Fregene sulla Golf bianca facendo, come lo chiamavi tu “il giro delle 7 chiese” a caccia di personaggi, politici e vip, ne abbiamo fatte tante insieme decisamente.

Sei stato un faro che ha scolpito prima l’uomo e poi il fotografo che sono oggi. Grazie amico mio

 Stefano Gruppo, fotografo

Sempre pronti

“Villa Arzilla”, il caffè di via Pietro Rosa, lui che ci raccontava di quando in pieno sequestro Moro se ne andava in giro con la R4 rossa, le spaghettate nel suo attico di Ostia mentre si lavorava assieme e si programmava il futuro, lo zaino con tutto l’occorrente vicino alla porta (“Bisogna essere sempre pronti ad andare dove c’è una notizia”). Eravamo tutti attenti ai suoi occhi e invece a fregarci è stato il cuore. In pieno stile Marco Stefano. Se ne è andato a Taranto per farci abituare alla sua assenza. È una delle poche cose in cui non è riuscito.

Vincenzo Mulè, direttore di magazine

Il chiosco nella pineta

Roberto Filibeck

Queste due immagini sono state scattate da te, caro Marco Stefano Vitiello. No, non posterò, come normalmente si userebbe fare, le tue foto che ti ritraggono. Bensì due scatti che il tuo occhio di un colore intenso, come quello della volta celeste, quasi sempre “collegati”, come fossero un filo elettrico inserito in una presa, con l’obiettivo della tua inseparabile Nikon, avevano sapientemente catturato.

In una eravamo a sorseggiare un caffè, tra lo sbuffo del fumo azzurrognolo di una sigaretta dietro l’altra, in uno dei tuoi bar preferiti: “da Armando”, il chiosco immerso nella pineta di Castefusano, ad Ostia.

Nell’altra immagine eravamo fuori la Polisportiva di Fregene, in attesa di intervistare il giudice Giuseppe Ayala, nel 1992. Erano anni bui. La strage di Capaci in cui persero la vita, fra gli altri, Giovanni Falcone; a seguire la morte del suo collega Paolo Borsellino.

Contestualmente ad Ostia, sprofondata nel profondo degli abissi, per la forte presenza di una criminalità, apparentemente invisibile, ma sempre più organizzata, l’allora presidente della Confcommercio, Piero Morelli organizzava la serrata anti-tangenti, la prima in Italia. Era il “preludio” di Tangentopoli. Noi c’eravamo. A documentare fatti di cui all’epoca non potevamo sapere, avrebbero fatto la storia.

Ebbene lo ammetto. Nella vita credo di non essere mai stato un ipocrita. Ed ora che sei scomparso improvvisamente così, come un batter di ciglia, non eviterò di scrivere che negli ultimi anni i nostri rapporti si erano raffreddati. E molto.

Tutto a causa di un mio acquisto di una pubblicazione, allegata con un noto quotidiano, che, diciamo non era proprio in linea con i tuoi pensieri antifascisti. Nota, peraltro, che contraddistingue anche il tuo profilo Fb in cui lo scrivevi chiaramente (romano, fotoreporter, freelance, antifascista etc.). Così da una parte la mia sempre forte curiosità per questo libro, scritto da un pazzo visionario; dall’altra le tue vivaci e pungenti osservazioni critiche. Nel mezzo la mia determinazione a leggerlo. Risultato: non ci siamo più parlati.

Tutto questo non toglie – né toglierà mai nulla – ai miei ricordi, indelebili, sulla persona straordinaria, colta, intuitiva, che eri. I tuoi scatti in bianco e nero per documentare scenari di guerre Internazionali senza fine. I tuoi articoli, sempre pungenti, sul settimanale “Metropolit”, edito, negli anni ’90, da un piccolo gruppo di imprenditori locali, che dirigevi con grande professionalità, supportato da grafici d’eccezione e da un pool di giovani giornalisti, che all’epoca si affacciavano timidamente nel mondo del giornalismo.

Poi la tua nuova avventura con l’avvento della televisione locale con tanto di telegiornale. E ancora: i tuoi straordinari Book fotografici, che spesso ritraevano curve e linee in B/N di donne sensuali, alle quali facevano da scenario l’interno di suggestivi luoghi, come la fabbrica abbandonata della Breda, ad Ostia, che oggi ospita il cinema multisala Cineland. Quelle tue mani da artista esperto, che sapevano cogliere “attimi fuggenti”.

Così, allo stesso modo, ti esprimevi con grande maestria quando eri davanti ai fornelli. Davi il meglio di te. E chi si scorda la tua pasta con le melanzane? Degustata davanti ad un bicchiere di vino rosso, la musica jazz di sottofondo, nel tuo attico (all’epoca senza ascensore) di Piazza Giuliano della Rovere. Già… Quel quarto piano da fare a piedi, che ti faceva spesso ripetere la canonica frase: “Devo smettere di fumare”, quando arrivavi davanti alla porta di casa, praticamente senza respiro. Perché sapevi che quelle Camel senza filtro ti stavano togliendo l’ossigeno. Però facevano praticamente parte del tuo “corredo”, insieme con l’accendino Zippo, perennemente riposti nel taschino davanti del consunto giubbotto milletasche da Fotoreporter di colore beige; che durante l’inverno veniva sostituito dal giaccone verde militare, stile Vietnam, spesso indossato dagli inviati di guerra.

Da sottolineare questo tuo spiccato senso di grande intuizione, che spesso mostravi di avere, sia nel mondo giornalistico, sia in quello imprenditoriale. Non casualmente, nel cuore di Roma, a cavallo degli anni ’80-’90 avevi aperto, insieme con un socio, l'”Image”, una delle prime gallerie di arte moderna, specializzata nella vendita di opere grafiche e manifesti di artisti internazionali famosi. Oggi un’icona.

Due, invece, le cose che ti facevano letteralmente incazzare. La prima, di cui ho già accennato: qualunque argomento, fatto, astratto o concreto, che avesse a che fare con il Fascismo. La seconda: le persone che tentavano di presentarsi a casa tua, citofonando senza preavviso e alle quali ovviamente non rispondevi. Mai.

Una, infine, credo insieme con i tuoi amati genitori scomparsi, la cosa che più amavi, e di cui, fino a quando ci siamo sentiti, non smettevi mai di parlare amorevolmente: Claudia. L’amore per tua figlia, oggi maggiorenne, alla quale – di questo sono fermamente convinto – hai trasmesso tanti di quel profondi valori che avevi e sui quali avevi costruito le fondamenta della tua vita.

Caro Marco, spero, nonostante questo nostro distacco, ovunque tu sia ora, con la tua Reflex a tracolla, di essere riuscito almeno a strapparti un piccolo, ma efficace sorriso.

Roberto Filibeck, giornalista

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