Respinto risarcimento per danni da parto: a mamma e figlio disabile chiesti 300mila euro di spese

Respinto il risarcimento per i danni arriva la condanna al pagamento delle spese. Elena Improta: "Un importo talmente spropositato da apparire punitivo e dissuasivo"

Alla mamma di un giovane uomo di 32 anni affetto da una gravissima disabilità, giunge l’esito di una causa civile avviata per il risarcimento dei danni subiti al momento del parto. La causa è iniziata nell’aprile del 1996 presso il Tribunale di Roma, ma si è conclusa nelle ultime ore purtroppo nel modo peggiore.

Alla donna e suo figlio infatti, oltre ad essere stata respinta la richiesta di risarcimento, è arrivata la condanna al pagamento delle spese per 26 anni di causa, per un importo spropositato di quasi 300mila euro.

Respinto il risarcimento per i danni arriva la condanna al pagamento delle spese. Elena Improta: “Un importo talmente spropositato da apparire punitivo e dissuasivo”

Elena Improta è la mamma di Mario, un uomo di 32 anni con una grave disabilità, una situazione con la quale questa famiglia convive da sempre e che li aveva spinti nel 1996 ad intentare una causa civile presso il Tribunale di Roma, per il risarcimento per i danni subiti al momento del parto.

Dopo 21 anni, e cioè solo nel 2017, la Cassazione aveva riconosciuto che doveva ritenersi “provata l’esistenza di nesso causale tra la condotta omissiva dei medici in sala parto e la patologia subita dal paziente”.

Un punto di arrivo che però è stato stravolto nelle ultime ore e dopo un iter tortuoso, a seguito del quale la Corte di Appello ha ribaltato le conclusioni della Corte di Cassazione, respingendo il risarcimento e condannando Elena Improta e suo figlio al pagamento delle spese per un importo di quasi 300mila euro.

Respinto risarcimento per danni da parto: a mamma e figlio disabile chiesti 300mila euro di spese 1

Questa madre che fino ad oggi aveva combattuto per suo figlio ma sempre con un’estrema fiducia nella giustizia, ora affida il suo sgomento ai social dove ha condiviso una lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Presidente del Consiglio Mario Draghi e al Ministro della Giustizia Marta Cartabia.

Oggi, per la prima volta in questi 26 anni di silenziosa e fiduciosa sofferenza, alla vigilia del mio 59esimo compleanno, sono costretta a dare voce al mio sgomento ed incredulità davanti all’esito incomprensibile della causa in sede di rinvio. I medici in sala parto hanno tolto a Mario l’opportunità di essere una persona neurotipica, i Giudici gli stanno togliendo l’opportunità di vivere dignitosamente da persona con disabilità”.

Alla parola disabilità riferita a suo figlio, la donna aggiunge il sostantivo “generosa”, perchè Mario così come anche Elena Improta, in questa loro battaglia di anni, non solo sentono di non essere soli, ma avvisano anche la necessità attraverso l’aiuto profuso verso altri disabili, di combattere per un senso della giustizia più ampio, allargato a chiunque viva la stessa condizione.

Elena e suo figlio, già da diversi anni sono parte dell’Associazione “Oltre lo Sguardo” impegnata quotidianamente al fianco delle famiglie del II Municipio di Roma che devono affrontare il problema della disabilità e che attraverso una rete di operatori socio-sanitari, comprendente organizzazioni di volontariato e non, figure professionali, Istituzioni e rappresentanti dei Servizi presenti sul territorio, sviluppa modelli di intervento integrato di assistenza per il cosiddetto “durante noi” e “dopo di noi”.

Una causa durata 26 anni. Elena Improta “Come ridurre i tempi della giustizia civile e velocizzare questi procedimenti?”

“Il diritto di Mario ad un giusto processo è stato innanzitutto violato e calpestato da 26 anni di causa – sottolinea Elena Improta – devastanti da un punto di vista emotivo, psicologico ed economico, ma durante i quali ho sempre mantenuto fiducia nella Giustizia e nell’Ordinamento Giudiziario. Ma dopo l’esito che respinge il risarcimento e la condanna a me e Mario al pagamento delle spese per quasi 300mila euro, non posso più credere che questa sia Giustizia”.

La donna si è così appellata al Presidente Mattarella, al Presidente Draghi, e al Ministro Cartabia, inviando loro via pec anche gli allegati con una sintetica ricostruzione di questa vicenda processuale infinita:

Ho speso la mia esistenza a tutelare i diritti di Mario e non solo. Ora sono molto provata e stanca e sono traumatizzata da questo evento che mi toglie energia per poter prendermi ancora cura di Mario. Sono spaventata e morta dentro. Resta l’umiliazione di una madre e di un figlio, e restano pochi anni davanti a noi. Spenderli con questa prospettiva mi annienta. La magistratura non può permettere tutto questo dopo 26 anni. Io e Mario due volte oltraggiati, abbiate compassione per questa nostra lettera”.

Elena continuerà la sua battaglia, facendo nuovamente ricorso in Cassazione e cercando di trovare la forza fisica e mentale per affrontare ancora un’altra dura prova tra sacrifici e privazioni. Ma al suo spirito battagliero stavolta mancherà la fiducia nei confronti della Magistratura. 

La vicenda di Elena Improta e suo figlio Mario rientrano tra quei casi di giustizia che nonostante la lunga durata della causa, non sembrano quasi essere passati attraverso quegli step essenziali di umanità e buon senso, e da quel concetto di “Pietas” che era proprio del Diritto Romano, e che sempre essersi disgregato in qualche anfratto della materia giuridica moderna.

Il parere del legale

Sulla vicenda di Elena Improta e suo figlio, abbiamo sentito il parere dell’Avvocato Guido Pascucci:

L’intervento della Corte di Appello dopo che la Cassazione aveva riconosciuto il “nesso di causalità” ci fa comprendere che in quella sentenza la Cassazione non avesse solo riconosciuto la causa del danno, ma avesse anche rinviato nuovamente il processo ai giudici di gradi precedenti, dopo averlo “cassato” (cioè cancellato). Come mai la Cassazione ha rinviato il Giudizio ai Giudici di Appello o del Tribunale ? La signora, nella sentenza finale, era riuscita a documentare e provare la causa del tremendo danno ? La mancanza di prove, o la loro incompletezza, può aver determinato l’esito del processo. La durata del processo (oltre 26 anni) è sicuramente l’unica sanzione che accomuna tutti, vittime e carnefici. Non può durare così tanto un processo, ad oggi, a Roma, un processo può durare anche 3 anni, nel mondo civile, e 10 anni nel penale. Questa è sempre una ingiustizia, comunque questo finisca. Un processo lungo è sempre ingiusto“.

In merito alla “Pietas” – aggiunge l’Avvocato -, non dobbiamo confondere un termine della Roma repubblicana (di oltre 2100 anni fa), incentrato nel rapporto tra il cittadino e divinità, o con i defunti (e secondo il quale la corretta e fedele celebrazione del rito avrebbe determinato il successo militare, politico, familiare o economico), con una visione filosofica moderna, passata attraverso le elaborazioni di Sant’Agostino e San Tommaso, e l’illuminismo settecentesco. Il Giudice – conclude Pascucci – (se la sentenza della Corte di Appello è davvero definitiva) deve tenere conto delle condizioni economiche e della prostrazione della madre, e deve proporzionare una condanna economica, e non renderla una vendetta”.

canaledieci.it è su Google News:
per essere sempre aggiornato sulle nostre notizie clicca su questo link digita la stellina in alto a destra per seguire la fonte.

Truffe online, vittima anche l’ex presidente del tribunale di Roma Mario Bresciano