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E’ morto Marco Stefano Vitiello, il ricordo dei colleghi di Ostia

Una grande perdita. Improvvisa, maligna, devastante. A 69 anni se ne è andato Marco Stefano Vitiello. Giornalista, fotografo, esperto d’arte, cultura profonda e limpida come l’azzurro dei suoi occhi, da qualche tempo viveva a Taranto ma è a Ostia che ha lasciato una grande impronta e l’affetto di migliaia di persone.

Giornalista, fotografo, esperto d’arte agli inizi degli anni Novanta aveva dato vita al settimanale del litorale romano Metropolit

Lo ha strappato un infarto. Senza sintomi. Senza avvisi. Da Ostia si era trasferito per stare vicino alla figlia, Claudia, il suo grande amore insieme a quello che lui nutriva verso il bello e per la conoscenza. Al Lido ha dato gambe a una delle avventure editoriali più coinvolgenti di sempre, il settimanale Metropolit. Forte dell’impegno economico dei mecenati Ruggero Picchi (leggi qui) e di Giacomo Vizzani (leggi qui) e fiancheggiato dallo straordinario disegnatore Gianluigi Marabotti, Vitiello ha tirato su una squadra di giornalisti più o meno esperti capaci di confezionare inchieste, racconti e articoli che hanno lasciato il segno.

Erano gli inizi degli anni Novanta. E quel periodo d’oro del giornalismo locale, che aveva nella redazione Litorale de Il Messaggero il più solido caposaldo, è stata la palestra per giornalisti che ora lavorano per grandi testate. Metropolit si divideva la piazza locale con Il giornale di Ostia del compianto Gianni Sepe, altro pioniere dell’informazione locale. Ed erano gli anni, quelli, della rivoluzione copernicana contro la corruzione messa in atto da Piero Morelli, presidente dell’associazione commercianti, e da Francesco Ferace, maggiore dei carabinieri (leggi qui), capaci di anticipare da Ostia quella operazione “Mani pulite” che tempo dopo culminò nel panorama politico-giudiziario nazionale.

Marco Stefano Vitiello, saldo al comando di Metropolit, orchestrava con gentilezza e maestria l’impegno, la curiosità e la forza di quei giovani giornalisti facendo diventare Metropolit un punto di riferimento per la cittadina.

Chiusa l’esperienza di Metropolit, Marco Stefano Vitiello ha collaborato anche con Canale 10 e anche qui ha lasciato la sua impronta fatta di rigore, professionalità, caparbietà. Un Maestro nel carattere, un amico nella vita di tutti i giorni. E chi non si è dimenticato di lui oggi lo piange.

Il ricordo di Stefano Vladovich

Un uomo d’altri tempi, Marco Stefano Vitiello, classe 1953. Gentile, garbato, mai aggressivo. Un fotoreporter che dalla guerra in Iraq si catapulta sul litorale romano in piena Tangentopoli per seguire quella più nascosta dei colletti bianchi in affari con la mala romana.  Sempre con la sua Nikon al collo e la fidata borsa Donke, quella che vendono solo a New York da B&H. “Devi agganciarci sempre un moschettone, di quelli da montagna, con due rotoli di nastro isolante per ogni evenienza”. Si, perché non si sa mai, ripeteva. Marco Stefano, dopo aver collaborato con L’Europeo e diverse testate giornalistiche italiane e straniere, arriva al settimanale Metropolit, la rivista voluta dall’Ascom, l’Associazione commercianti di Ostia, per raccontare la città sul mare di Roma. Il mio primo articolo me lo commissiona proprio lui, nel 1992. E me lo paga pure, che di questi tempi, ma anche in quelli, è cosa rara. “Racconta le bellezze archeologiche del territorio” mi chiede. “Ma fallo un po’ alla Indiana Jones e un po’ alla Lewis, Roy Lewis, lo scrittore de ‘Il Più Grande Uomo Scimmia del Pleistocene’, sottolinea.

Da sinistra Stefano Vladovich, Marco Stefano Vitiello, Alessia Marani e Mino Ippoliti

Fresco d’Università inizio così a fare il “giornalista”. Almeno ci provo. Mai uno screzio, nemmeno quando mi liquida, mesi dopo, perché i miei pezzi sono troppo tecnici e poco “avventurosi”. Marco Stefano non alzava mai la voce, un signore. Da lì, passo a varie testate locali fino a quando arrivo a il Giornale. Con lui, Mino Ippoliti, Alessia Marani, Giulio Mancini, Alessandro Fulloni e Umberto Faraglia seguiamo centinaia di casi nazionali, dall’affare Ocalan, all’omicidio del piccolo Simeone Nardacci, dall’uccisione di “Pinocchietto” a Torvaianica, al disastro della pineta carbonizzata. Io per il Giornale, lui per il Corriere della Sera. Indimenticabili le sue spaghettate con gli amici e colleghi Fulloni e Giampiero Cazzato nel suo attico in piazza Giuliano della Rovere, a Ostia. O le sue dritte sui caposaldi della letteratura, come “Quer Pasticciaio Brutto de via Merulana” di Gadda che mi sono appuntato su Amazon ma che non ho ancora ordinato. Era orgoglioso Marco Stefano di quello che stavo costruendo, passo dopo passo. I suoi consigli, i suoi incoraggiamenti, mi hanno seguito per 30 anni, fino a sabato mattina quando mi scrive che il mio ultimo pezzo, quello sull’omicidio di un 19enne ad Alatri, non riesce a leggerlo perché a letto con l’australiana. Si, si era beccato questa maledetta influenza che ha stroncato migliaia di persone. E il suo cuore non ha retto, mandandolo al Creatore poche ore dopo.  A Taranto, dove viveva dal 2014, lascia una splendida figlia, Claudia, della quale andava orgogliosissimo. Qui a Roma lascia decine di amici senza parole e con tanta amarezza nel cuore. Quel pasticciaccio brutto adesso lo compro, sarà il tuo ultimo regalo. Amico mio.

Stefano Vladovich, giornalista de Il Giornale

L’addio di Alessandro Fulloni

Te possino Marco Stefano, ci hai accannato di brutto. Noi, i tuoi amici, Ostia. Ma direi che soprattutto hai lasciato tua figlia Claudia, ragione della tua vita, quella che ti ha inaspettatamente regalato i giorni più belli dopo il tuo passato, lungo, da commerciante con il bernoccolo dell’arte (per snocciolare una delle tue poliedriche intuizioni: la galleria Image a Roma la inventasti tu…), giornalista, inventore di settimanali, fotografo giramondo, antropologo con affaccio sulla gente, elargitore generosissimo di idee, tempo, chiacchierate, cene, affabulatore e innamorato delle donne. Sei stato un amico fraterno, Marcostiv, il mio Pal. Compagno di zingarate uniche e interminabili, professionali e non. Qui posto questa foto – non è tua, chissà chi la scattò, ma è bella lo stesso – che mi riporta a quella mattina troppo forte di un febbraio lontano in cui al bar del curvone di Ostia, con lo sguardo un po’ così che in te non avevo mai visto, esordisti in questo modo: “Sai Ale, ti devo dire una cosa…”. Avevi 50 anni ed eri uno scapolone – diciamo – impenitente. Io mi mi misi a ridere perché già avevo capito tutto. Ti “bruciai” rispondendo che saresti stato un papà fantastico. Ogni volta che ci sentivamo lungo l’asse Milano-Taranto (io quassu’, tu laggiu’) era una gioia sapere di quanto brava e bella fosse la tua Claudia, divenuta favolosa 18enne. So long, Pal. Questa è una sera triste (e poi checazzo, non siamo riusciti a farla, quella cena con tutti quanti).

Alessandro Fulloni, giornalista de Il corriere della sera