Nei pazienti carenti di vitamina D, il rischio di sviluppare l’infezione da SARS COV 2 in forma grave fino a 14 volte maggiore
C’è una stretta correlazione tra la carenza di Vitamina D e il rischio di sviluppare una forma di grave di Covid, con esiti mortali. Uno studio universitario condotto tra la metà del 2020 e il 2021, ha svelato nelle ultime ore i risultati che spiegano come l’infezione cambia su soggetti con gravi carenze vitaminiche precedenti alla malattia. I dettagli.
Un basso stato di vitamina D può essere responsabile di un potenziale aumento del rischio di infezione da SARS-CoV-2? Sembrerebbe di si da quanto emerso nello studio pubblicato di recente dalla rivista scientifica americana Plos, che ha dato spazio ai ricercatori dell’Università Israeliana impegnati per due anni nei test su pazienti malati di Covid, esaminando se e in quale misura, esiste una relazione tra il livello sierico di 25-idrossivitamina D (25(OH)D) pre-infezione, e la gravità e la mortalità della malattia dovute a SARS-CoV-2.
La ricerca ha coinvolto oltre 1000 pazienti Covid ricoverati tra il mese di aprile del 2020 e febbraio del 2021 al Galilee Medical Center, la struttura che era già in possesso e nella disponibilità di utilizzare le analisi sui livelli plasmatici di vitamina D dei soggetti, precedenti allo sviluppo della malattia.
I pazienti ammessi al GMC con COVID-19 sono stati classificati in base alla gravità della malattia e al livello di 25(OH)D. Nei soggetti è stata quindi accertata un’associazione tra i livelli pre-infezione 25(OH)D, suddivisa in quattro categorie (carenti, insufficienti, adeguati e altamente normali) e la gravità di COVID-19, ed isolata la possibile influenza delle variazioni stagionali di 25(OH)D durante l’anno.
Dei 1176 pazienti ammessi, solo 253 avevano un livello alto di vitamina 25(OH)D prima dell’infezione da COVID-19. Uno stato di vitamina D inferiore era più comune nei pazienti con malattia grave o critica, e cioè per l’esattezza, con valori di 20 nanogrammi per millilitro di sangue o inferiori, il rischio di sviluppare l’infezione da SARS COV 2 in forma grave è risultato ben 14 volte maggiore rispetto ai pazienti con livelli plasmatici di vitamina D di 40 nanogrammi per millilitro.
Nella sostanza, per il gruppo con scarsa vitamina D nel sangue la mortalità registrata è stata purtroppo del 25,6%, contro una mortalità di appena il 2,3% dell’altro gruppo con un livello alto di vitamina 25(OH)D pre-infezione.
A poche ore di distanza dalla pubblicazione dello studio, e delle allarmanti conclusioni che ne sono state fornite, e cioè che nei pazienti ospedalizzati con COVID-19, la carenza di vitamina D pre-infezione è associata e può comportare a un aumento della gravità e della mortalità della malattia, non solo restano valide le indicazioni sull’uso e l’integrazione della vitamina D come abitudine regolare, ma a queste si aggiungono nuovi aspetti di estrema utilità nella prevenzione dell’infezione da Sars Cov 2, come ha sottolineato anche il responsabile della ricerca universitaria (leggi lo studio completo):
“Il nostro studio – ha spiegato Amiel Dror – dimostra che è raccomandabile mantenere livelli adeguati di vitamina D. Questo può essere utile nel caso si dovesse contrarre l’infezione. Si tratta di un’ulteriore conferma a sostegno delle raccomandazioni di integrazione di vitamina D su base regolare”.
All’importanza della vitamina D, che com’è noto è una sostanza essenziale per il nostro organismo, perché responsabile dell’assorbimento del calcio, si aggiungono quindi nuovi valori anche preventivi e semmai terapeutici. Ma questi, pur fondamentale per la sua salute e funzionalità del nostro organismo, come ad esempio per le ossa, per il sistema nervoso centrale e periferico, e nella coagulazione e contrazione muscolare, è però un elemento che non è prodotto dal corpo umano.
Questa vitamina viene assunta dal corpo attraverso alimenti quali latte e derivati, ma anche proteine di origine animale, o in casi di particolari carenze, anche con integratori assunti non attraverso gli alimenti, e attraverso la sintesi che opera il nostro organismo quando è esposto al sole. Esposizione che deve tener conto di alcuni fattori che possono rendere il processo di sintetizzazione più o meno efficace:
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