La pasta è una passione che in Italia, nonostante la sempre maggior quantità di cibi alternativi e fast, invece di diminuire, aumenta. Secondo Coldiretti infatti, il nostro paese, resta quello con il più elevato consumo di questo alimento, con un quantitativo annuo di oltre 23 chilogrammi a testa.
Buona parte di questo rinnovato sentimento del gusto, verso il piatto principale della tradizione nostrana, che vanta oltre 300 formati differenti, inclusi gli integrali e quelli a base di legumi, si deve anche alle nuove tendenze salutiste nell’alimentazione, nella direzione della riscoperta di grani antichi, che hanno riportato nel piatto una qualità tangibile tra sapori, profumi e alta digeribilità. Ma il nostro grano. migliore anche dal punto di vista della sicurezza per la salute, non basta a coprire la produzione che è aumentata più del doppio.
Gli antichi grani italiani e la ricerca della qualità nella pasta, in un futuro segnato da un’importazione senza garanzie di sicurezza
La pasta 100% italiana e particolarmente quella prodotta con grani antichi, è diventata ormai la scelta di qualità del prodotto più amato della cucina italiana, presente negli scaffali della distribuzione selezionata, e riconoscibile attraverso l’indicazione di origine. Ma da dove viene il nostro grano? Nella ricerca delle antiche varietà di cereale autoctono, percorrendo i granai d’Italia, si parte inevitabilmente dal sud, con un primato che storicamente detiene la Regione Sicilia, considerato già dal mondo antico il principale “granaio di Roma” con le sue oltre 50 varietà classificate.
E’ da qui infatti che provengono le più note varietà, quali la Timilia, un antico grano duro a basso contenuto di glutine, il Russello tra le migliori per quantità di glutine e attitudine alla panificazione, ma anche il farro Monococco, e naturalmente il grano Senatore Cappelli, ottenuto per selezione genealogica, e che è ancora viene coltivato dall’inizio del XX secolo, in Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia, Sardegna e nella Provincia di Ascoli Piceno, per la produzione di pasta di qualità superiore.
Altre varietà che meritano una menzione e hanno fatto la storia del grano italiano, solo per citarne alcune, sono il Solina o il Marzellina, una varietà di frumento duro utilizzato anch’esso soprattutto per la produzione di pasta, e il Saragolla, una delle più antiche varietà di frumento duro coltivate in Irpinia, capostipite dei più moderni grani duri, e diretto discendente del grano Khorasan (scoperto migliaia di anni or sono tra Egitto e Mesopotamia).
Parliamo di cereali che, ricchi di proteine vegetali e poco glutine e dunque estremamente più digeribili rispetto al comune grano tenero, hanno una grande capacità di pastificazione ed essiccazione per farne paste che avranno un’ottima tenuta nel piatto.
Le antiche varietà di grano a volte ritornano quindi, e una volta assaggiate non vorremmo più farne a meno perché sono buone e più digeribili. Ma la logica della grande distribuzione, e soprattutto della pasta, il prodotto più consumato della nostra tavola e non solo, purtroppo chiede altro, e spesso non si tratta di qualità.
Anche senza addentrarci in un mondo oltremodo vasto, dopo tutta questa premessa qualitativa, ci viene da dire che scelta volendo ce n’è, e informazione anche, per consentire ai consumatori ormai attenti all’origine delle materie prime, di scegliere con criterio quale pasta comprare, aiutati anche dalle indicazioni che in etichetta riportano la provenienza della materie prime. Ma questo a breve non basterà più a garantirci l’acquisto di un prodotto 100% italiano. Perché?
Intanto va considerato un fatto concreto, e cioè che il grano nostrano non basta alla produzione. Dato confermato anche da un’analisi recente di Italmopa (rilevamento del 2020), secondo la quale utilizzando solo la produzione italiana, troveremmo la pasta a scaffale nei supermercati solo per quattro mesi all’anno, il che impone necessariamente l’importazione della materia prima.
La provenienza del grano importato
Il grano italiano non basta. Il nostro paese ha un fabbisogno di importazione che si attesta intorno al 55% per il grano duro, che arriva dal Nord America, Australia, Francia, Spagna, Grecia e al 40% di grano tenero, importato dalla Francia che ne detiene il primato in Europa, ma anche dall’Austria, Germania, Ungheria e Stati Uniti. Tutti paesi dove per altro finisce oltre il 60% della produzione nazionale di pasta.
Le materie prime d’importazione sono molto controllate nel nostro Paese, dove esistono numerosissimi livelli di controllo e relative autorità a ciò deputate, ma dal 1 di gennaio 2022, entrano in vigore le norme europee e sarà più difficile conoscere completamente paese di origine e molitura del grano.
L’obbligo dell’etichettatura con indicazione di provenienza, scattato nel 2018 e già prorogato un anno e mezzo fa, con l’entrata in vigore del regolamento europeo 2018/775 sull’origine dell’ingrediente primario, che aveva portato gli acquisti di pasta con 100% grano italiano a raddoppiare, scadrà alla fine del 2021, lasciandoci o per meglio dire facendoci ricadere nel baratro delle incognite.
Una situazione, che a meno di importanti accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con obiettivi qualitativi, quantitativi e prezzi equi, (il grano italiano è pagato circa il 20% in meno di quello importato), ci vedrà comunque costretti a subire gli aumenti delle quotazioni internazionali del grano.
E questo, a causa del dimezzamento dei raccolti, è proprio quello che sta attualmente accadendo in Canada, il principale produttore mondiale e tra i principali fornitori italiani, nonostante l’utilizzo del glifosato in preraccolta, vietato invece nel nostro paese.
I problemi della categoria sono tanti, non ultimi di natura strutturale e di stoccaggio, ma nell’ottica del consumatore, controllato speciale torna ad essere come al solito il glifosato o gliphosate (leggi qui), il diserbante più usato al mondo perché economico e facile da usare ma è fortemente sospetto di essere cancerogeno.
L’attenzione è alta, e lo resterà sicuramente fino ai nuovi controlli nella produzione, ma c’è da scommetterci sull’effetto negativo di queste nuove disposizioni previste per il 2022, perché come sottolineato da Ettore Prandini Presidente di Coldiretti: “L’esperienza aveva dimostrato l’importanza di garantire la trasparenza dell’informazione per far crescere un settore simbolo dell’Italia nel mondo“.
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