Caso Equalize, i legali di un indagato romano: “Strumenti informatici sequestrati oltre ogni esigenza investigativa”

La Procura di Milano, impegnata sulla vicenda del dossieraggio che coinvolge Equalize, nega la restituzione degli strumenti informatici, cellulare e pc, di uno degli indagati. Ricorso in Cassazione

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Sono passati ormai tre mesi dal sequestro degli strumenti informatici, tra smartphone e pc, agli indagati coinvolti nella vicenda Equalize, quella che secondo la tesi della Procura di Milano era una centrale di dossieraggio e spionaggio. Nonostante le norme prevedano la copiatura dei dati acquisiti dagli hardware e la pronta restituzione degli strumenti utili per consentire agli indagati di poter continuare a lavorare, i difensori di uno degli indagati romani si sono visti respingere la richiesta. E chiedono alla Cassazione di far rispettare i diritti della difesa.

La Procura di Milano, impegnata sulla vicenda del dossieraggio che coinvolge Equalize, nega la restituzione degli strumenti informatici, cellulare e pc, di uno degli indagati. Ricorso in Cassazione

Non sembrano calmarsi le acque intorno alla vicenda Equalize, esplosa lo scorso autunno a seguito delle indagini della Procura di Milano. Il caso, come noto, riguarda, secondo la prospettazione dei Pubblici Ministeri, un’ampia attività di dossieraggio e spionaggio, svolta ad altissimo livello, non solo mediante accessi abusivi alle principali Banche Dati Strategiche di interesse nazionale svolti mediante pubblici funzionari corrotti, ma persino, si vocifera, mediante accesso abusivo diretto allo SDI da parte degli indagati. Si tratterebbe, sempre secondo la tesi della Procura milanese, di un’organizzazione estremamente pericolosa, forse inserita nei gangli dei servizi di intelligence, al punto da mettere in pericolo la tenuta democratica della Nazione, influenzandone i meccanismi mediante l’uso indebito delle informazioni in ambito politico, economico nonché nel mondo dello spettacolo.

Su tale vicenda, in un primo momento, si era incentrato un grande clamore mediatico, derivante proprio dalle note della stessa Procura. Nei mesi successivi, i riflettori si sono spenti ed era calato il silenzio; adesso, invece, sembra che il caso stia nuovamente tornando al centro dell’attenzione. La ragione della nuova agitazione intorno alla vicenda pare che attenga ai sequestri probatori eseguiti nei confronti di alcuni degli indagati lo scorso ottobre, i quali, a distanza di oltre tre mesi, sono ancora in essere sia sui dispositivi informatici sia sui dati in essi contenuti.

La tesi della difesa

Secondo le difese (avv.ti Domenico Stamato e Vittorio Mazzocca Gamba, legali di uno degli indagati), il mantenimento dei sequestri, operati anche a Roma dai Carabinieri per conto della Procura di Milano sui dispositivi e sui dati in essi contenuti, viola il principio di proporzione, di origine costituzionale ed europea. Come illustrato negli atti difensivi, la giurisprudenza europea imporrebbe, oggi, che gli organi requirenti si limitassero alla sola immediata copiatura dei dati rilevanti ai fini investigativi, senza sequestro del dispositivo. Ciò salvo il caso di eccezionali difficoltà tecniche nell’accesso ai dispositivi informatici o comunque di mancata concessione delle password da parte degli indagati. In questa sola ipotesi, infatti, è consentito il sequestro del telefono/pc, anche se è comunque dovere della Procura, in questo caso, organizzarsi per procedere il prima possibile nella estrazione/copia dei dati rilevanti, con pronta restituzione dell’hardware

Come evidenziato dalle difese degli indagati, si tratta di garanzie volte ad evitare un’eccessiva e non necessaria compressione di diritti fondamentali, come quello all’iniziativa economica, paralizzata là dove ad esempio si privi un professionista, per un tempo prolungato, di device contenenti il suo lavoro e i suoi rapporti con la clientela, peraltro coperti da segreto professionale. A fronte di tale quadro di garanzie, pare che nel caso Equalize la Procura di Milano non manifesti l’intenzione di restituire quanto sequestrato ad ottobre. Infatti, sempre secondo le difese, gli inquirenti, con l’avallo del GIP, stanno trattenendo dispositivi informatici (smartphone e account), pure a fronte della immediata consegna dei codici di accesso da parte dell’indagato e dall’assenza di reali difficoltà tecniche nella copia forense e nell’estrazione. Sembra che queste ultime siano state rinvenute dall’Autorità Giudiziaria nella “dimensione” dell’indagine, un dato però non pertinente, ad avviso della difesa, stante l’obbligo della Procura di organizzarsi e stante le deleghe investigative preventivamente disposte ai vari e diversi organi di polizia, territorialmente competenti, coinvolti nelle operazioni.

Non si comprende, dunque, quale sia la reale ragione del rigetto delle richieste di restituzione dei dispositivi. Nonostante tempistiche ampiamente compatibili con la copiatura dei dati informatici (che richiede poche ore e che può certo essere organizzata in qualche settimana), la Procura non ha intenzione di restituire i dispositivi informatici, così precludendo di fatto l’attività professionale a soggetti che poi, magari, si riveleranno anche del tutto estranei ad ogni responsabilità, cosa di cui sono certi i difensori. Evidentemente, alla base ci sono altre ragioni, come la volontà di evitare qualsiasi fuga di notizie o comunque di stroncare, senza margini di errore, ogni attività di dossieraggio.

Il ricorso in Cassazione

In ogni caso, la palla passerà adesso alla Cassazione, alla quale alcuni dei difensori (avv.ti Domenico Stamato e Vittorio Mazzocca Gamba, legali di uno degli indagati) hanno già presentato ricorso in relazione al diniego di restituzione. Sarà dunque la Suprema Corte a valutare se sia effettivamente proporzionato, necessario e non inutilmente sacrificante, mantenere per mesi un sequestro su materiale informatico, sulla base di un’esigenza investigativa la cui soddisfazione dovrebbe richiedere, ordinariamente e rispettando le esigenze organizzative, poche ore o, al più, qualche settimana.