Per gli “esperti” inglesi del The Telegraph, Ostia e Catania sono due delle città italiane di mare tra le più brutte d’Europa. Il criterio non riguarda tanto la qualità del mare, unanimamente attraente per entrambe le località, ma le forme di degrado che si è raggiunto in posti densi di storia e dalla natura originariamente ricca.
Gli esperti del giornale inglese Telegraph stilano la classifica delle città di mare più brutte d’Europa e ai primi posti ci finiscono Ostia e Catania
E’ un articolo dal titolo The prettiest (and ugliest) seaside towns in Europe (traduzione: Le città di mare più belle e più brutte d’Europa) sottotitolo “Abbiamo chiesto ai nostri esperti di svelarci tutto”, pubblicato sul The Telegraph di una decina di giorni fa, a puntare l’indice contro Ostia e Catania. Il Lido secondo gli “esperti” del quotidiano inglese è una città che ha perso il suo fascino originale. Viene evidenziato come la bellezza naturale di Ostia sia stata compromessa da un’eccessiva urbanizzazione e dal degrado ambientale. Le spiagge, una volta apprezzate, ora sono affollate e caratterizzate da strutture fatiscenti, rendendo difficile per i visitatori godere di un’esperienza piacevole.
Catania, pur essendo una città di mare ricca di storia e cultura, è condannata all’infamia per il suo aspetto trascurato, in particolare dato da edifici in rovina e strade mal tenute, e per i problemi legati alla gestione dei rifiuti.
Nella graduatoria continentale figurano, per diverse ragioni, anche il Principato di Monaco, Ploče in Croazia, Kemer in Turchia, La Línea de la Concepción in Spagna, Laganas in Grecia e Albufeira in Portogallo.
Il peso della Città Eterna, madre-matrigna
Credo che la maggioranza dei residenti di Ostia non possa non riconoscersi nel giudizio tagliente degli “esperti” inglesi consultati dal Telegraph. E’ vero, la trasparenza del mare di Ostia (che non ha divieti di balneazione ad eccezione dello sbocco del porto turistico e del Canale dei Pescatori), gli inglesi se la sognano. L’aria non inquinata e carica di iodio che si respira sul lungomare, poi, la si potrebbe imbottigliare e vendere a peso d’oro ai londinesi. Che dire, poi, delle dune di macchia mediterranea di Capocotta? Del fascino immutato nei secoli dell’antica città romana di Ostia e del suo borghetto medievale?
A parte queste “perle” però, bisogna ammettere che il degrado urbano e quello ambientale hanno avuto un’accelerazione spaventosa nell’ultimo decennio. Ci provassero gli inglesi a convivere con una città madre-matrigna come Roma che fa razzia delle risorse di Ostia riversandole nelle casse generali e restituendone al litorale una minima parte. L’economista Massimo Bareato consultato dal Comitato per Ostia Comune nel 2019 ha calcolato che la stima annuale degli investimenti in caso di distacco dalla Capitale sarebbe di quattro volte superiore a quella applicata dal Campidoglio, vale a dire che Roma-matrigna prende quattro dall’economia locale e restituisce uno.
Basta questo dato per capire cosa andava fatto e non è avvenuto. Prendiamo il caso delle pinete una volta vanto della città di Ostia e rase al suolo dalla morte di migliaia di alberi. C’è chi ha calcolato che negli ultimi anni siano stati abbattuti solo nel Decimo Municipio circa 12mila pini perché uccisi dalla famigerata cocciniglia tartaruga. Ebbene, pure in presenza di una legge regionale che ha istituito l’obbligo di cura dei pini, il Comune di Roma si è ben guardato dal farlo. I privati (Aldobrandini per le Acque Rosse e Procoio, Chigi per la tenuta dell’ex Country e il Capitol Village) sono stati costretti e larga parte dei loro pini si sono salvati.
Parlare di un eccessivo peso edilizio su Ostia è un eufemismo. Nonostante i danni del passato (basti considerare il solo caso del quartiere-ghetto di Nuova Ostia), il Campidoglio continua a autorizzare la nascita di palazzi e palazzine. Gli ultimi nati sono gli edifici del Borghetto dei Pescatori, di via Isole del Capoverde (Acqua Marcia) e via delle Azzorre (Caltagirone), poi ci sono le scandalose costruzioni di Giardino di Roma, addossate alla linea ferroviaria sopra importanti reperti archeologici, e i nascenti isolati delle cooperative dell’Infernetto, addosso alla Tenuta presidenziale di Castelporziano. In arrivo, infine, il quartierino di via delle Quinqueremi (Mezzaroma). Su quale città, se non Ostia, va a gravare la richiesta di servizi da parte di questi nuovi abitanti?
Spiagge affollate e stabilimenti fatiscenti
Ricordato, riguardo l’affollamento lamentato dal Telegraph, che Ostia è il mare di una comunità di circa 4 milioni di residenti dell’area metropolitana di Roma, e sottolineato che forse gli esperti non sono stati sulle ampie spiagge libere di Castelporziano (pure degradata sul piano naturalistico) e di Capocotta, vediamo il perché delle strutture fatiscenti sul resto degli arenili ostiensi. Stiamo parlando di stabilimenti balneari e la mente corre subito alla direttiva Bolkestein votata in UE anche dagli inglesi prima della fuga con la Brexit. Sono stati, infatti, i Paesi del Nord Europa, quelli privi o tutt’al più poveri di economia balneare, a stabilire che gli stabilimenti di Grecia, Spagna e Italia fossero inquadrati in una direttiva che riguardava la libera concorrenza nei servizi e non nella gestione del demanio, patrimonio di una nazione che ha il diritto di normare autonomamente la gestione delle sue proprietà. Insomma, anche gli inglesi hanno qualche responsabilità su una norma che, almeno finora, ha affossato qualsiasi velleità di crescita dell’industria balneare di Ostia.
Eh già, perchè mentre Spagna e Grecia hanno risolto furbescamente riducendo il demanio marittimo ai soli cinque metri di frontiera, quindi alla battigia, a livello italiano sulla applicabilità della Bolkestain si è litigato a lungo. L’Italia ha temporeggiato ponendo quesiti e resistenze all’Unione Europea, spinte ideologiche hanno portato diversi comuni (tra i quali, guarda caso anche quello di Roma) e pure alcuni tribunali amministrativi a anticipare le linee governative e il risultato finale è stato il blocco degli investimenti da parte dei concessionari sui loro impianti. Chi investirebbe su un bene che dall’oggi al domani potrebbe essere sottratto e affidato ad altri?
E’ successo, così, che a Ostia a uno a uno gli stabilimenti balneari si sono deteriorati (il caso limite è quello de La Casetta ma per diversi anni ha riguardato anche L’Isola fiorita). L’imposizione da parte del Comune di Roma-matrigna di sovrattasse sulla valenza turistica di Ostia non dovute, poi, ha messo in ginocchio alcuni dei concessionari che, non pagando, si sono visti ritirare la concessione dei loro impianti. Episodi, questi, che sono andati a sovrapporsi alla carenza di investimenti nella lotta all’erosione, in questo caso competenza della Regione Lazio.
Non si può non includere nel degrado anche il fattore sociale scatenato da scelte quanto meno inopportune proprio del Campidoglio: collocare la mensa dei poveri in una struttura del lungomare di Ostia, che peraltro diventerà un centro di accoglienza h24 per senza fissa dimora, è un’attrattiva che non favorisce certo il turismo ma che spinge in quel posto chi non sa dove vivere e finisce per accamparsi sulla spiaggia antistante.
Insomma, cari inglesi, fate presto a dire che Ostia è una città di mare brutta. Provateci voi a convivere con Roma, città eterna e distratta.