Ribaltata l'assoluzione: i giudici riconoscono l'aggravante mafiosa. Ecco come gestiva gli affari illeciti di famiglia dal carcere
Senese riconosciuto come boss. Ha continuato a gestire gli affari illeciti di famiglia anche dal carcere, scambiando veri e propri “pizzini” con la moglie e col figlio, per impartire comandi e mantenere il controllo del suo impero illegale.
E’ la ricostruzione dei giudici che hanno appena condannato Michele Senese, O Pazzo, a 11 anni di reclusione con l’aggravante mafiosa nel processo di appello bis. Un processi frutto della maxi-inchiesta della Dda capitolina “Affari di Famiglia” di quattro anni fa.
Lo scorso febbraio, a fronte delle stesse a accuse, la Cassazione aveva annullato l’assoluzione di Senese decisa nel primo processo di secondo grado, quando era caduta anche l’aggravante mafiosa riconosciuta, invece, in primo grado.
Insieme alla condanna del boss a 11 anni i giudici della Corte di Appello di Roma, nel processo bis, hanno condannato anche la moglie a 5 anni, il figlio Vincenzo a 13 anni e il fratello Angelo a 6 anni e mezzo.
Senese anche dal carcere avrebbe impartito ordini approfittando dei colloqui con moglie e figlio. In almeno due occasioni, Senese avrebbe scambiato almeno le scarpe (con pizzini all’interno) con il figlio senza farsi notare dalla penitenziaria.
Vincenzo Senese – che in assenza del padre avrebbe gestito gli affari di famiglia – era stato fotografato, infatti, mentre entrava e usciva dal carcere di Oristano con scarpe di colori diversi.
Il clan Senese era stato sgominato nel 2020 con 26 arresti. All’epoca Senese era già stato condannato in via definitiva a 30 anni per l’omicidio di Giuseppe Carlino, avvenuto nel settembre 2001 a Torvaianica. A cui si poi si è aggiunta la condanna, in primo grado, a 15 anni proprio per l’operazione Affari di famiglia. Poi l’alternarsi dei giudizi. Fino all’ultimo giudizio 11 anni e con aggravante mafiosa. Ora l’ultima parola spetta di nuovo alla Cassazione.
I reati contestati dall’estorsione all’usura, al riciclaggio. Uno dei problemi della famiglia – emergeva dalle indagini della Finanza – era ripulire il denaro sporco ricavato da prestiti a strozzo e narcotraffico. Soldi poi investiti in imprese di abbigliamento e l’apertura di ristoranti a Roma.