Roma, abbattimenti degli alberi: Labur svela il business del verde pubblico

Nell’immenso patrimonio verde della capitale un sistema illegale e molto remunerativo gravita attorno all’abbattimento degli alberi ad alto fusto

Quasi 90mila ettari di estensione e un numero di alberi e piante che il Comune di Roma Capitale neppure conosce. Perché nessuna amministrazione ha mai completato il censimento del verde presente all’interno del territorio capitolino e tanto meno la geolocalizzazione delle piante che ne fanno parte. Un compito improbo per i 384 dipendenti del Servizio Giardini e di cui un terzo non sono neppure idonei a esercitare attività di manutenzione di parchi e aree protette.

Nell’immenso patrimonio verde della capitale un sistema illegale e molto remunerativo gravita attorno all’abbattimento degli alberi ad alto fusto

A tentare di far chiarezza in un contesto di difficilissima lettura è uno studio del Laboratorio di urbanistica LaBur.

Le aride statistiche fornite dal Dipartimento dell’ambiente riferiscono che in tutto il territorio comunale sono state rimosse, nell’ultimo triennio, quasi 18mila piante per un costo complessivo per le casse del Campidoglio di circa 60milioni di euro e che l’obbligo di provvedere alla loro sostituzione non è mai stato mantenuto.

Ancora più fantomatica la situazione del X Municipio in riferimento alla quale nessuno degli assessori che si sono succeduti nel governo del territorio litoraneo nelle ultime due legislature ha mai fornito un solo dato.

Non sorprende, quindi, che nella totale mancanza di informazioni di un patrimonio arboreo sterminato non sia possibile controllare tutti gli interventi di potatura, capitozzatura, ovvero di tagli indiscriminati che vengono effettuati in moltissimi quartieri della capitale oltre che nelle sue aree più periferiche.

Ostia e il suo territorio non sfuggono a questa pressoché assoluta carenza di verifiche. Ma una più puntuale analisi sugli abbattimenti eseguiti negli ultimi mesi consente di farsi un’idea delle conseguenze, anche molto gravi dal punto di vista patrimoniale, che fanno da corollario a una gestione spesso illegale del verde pubblico.

Il caso dell’eliminazione dei circa 300 esemplari di pinus pinea abbattuti negli ultimi 5 anni all’Infernetto

LaBur ha preso come parametro di riferimento l’eliminazione di circa 200 esemplari di pinus pinea avvenuta negli ultimi cinque anni lungo il suggestivo viale di Castelporziano nel quartiere residenziale dell’Infernetto situato alle porte del Lido.

Altri 100 alberi della stessa specie sono stati rimossi tra agosto e novembre dello scorso anno con interventi finanziati in “somma urgenza” in ragione del dichiarato pericolo di crolli e quindi senza alcuna autorizzazione degli uffici competenti né tanto meno controlli preventivi e successivi sulle modalità con cui sono state svolte le singole operazioni (leggi qui).

Ma soprattutto senza alcuna cognizione di causa in merito alla destinazione del legname recuperato dopo il taglio, come invece prevedrebbe l’obbligo di trasparenza nell’esercizio delle funzioni pertinenti all’azione della pubblica amministrazione.

Si tratta di pini -rileva il rapporto stilato da LabUr- che sono stati eliminati in totale dispregio del regolamento capitolino del verde pubblico e privato e del paesaggio urbano di Roma Capitale” contenuto nella deliberazione dell’assemblea di Roma Capitale n. 17 del 22 marzo 2021 che considera questi alberi “oggetto di speciale salvaguardia in quanto specie identitaria del paesaggio romano”.

Esemplari alti tra i 15 e i 18 metri con ombrelli del diametro di cinque metri e classificati come “beni del patrimonio culturale” disposti su due file parallele lungo la strada che attraversa un intero quartiere sono andati perduti dopo essere stati esposti alle infestazioni letali della cocciniglia tartaruga con perdite per il pubblico erario che hanno consentito a qualcun altro di approfittarne.

Dietro alla raccolta e al trasporto del legno come rifiuto urbano infatti si estenderebbero, accusa LabUr, le radici di un mercato non sempre regolare del cosiddettocippato“ e cioè del legno sminuzzato in scaglie e segatura derivante dal taglio di tronchi, ramaglie, piante intere o loro porzioni e relativi residui.

I tronchi e il legname risultante dalle potature vengono considerati rifiuti che le ditte incaricate dello smaltimento rivendono a peso d’oro

Un mercato cui si rivolgono anche le centrali che producono energia elettrica attraverso la combustione delle biomasse e persino le caldaie a “cippato” dei privati, ovvero di piccole industrie e artigiani che hanno investito in dispositivi capaci di produrre bio-energia dagli scarti delle potature e la cui resa termica è di circa quattro volte superiore a quella del pellet, ottenuto dalla semplice pressatura di legno di scarto essiccato in precedenza.

Il “cippato” è dunque un prodotto prezioso remunerato a caro prezzo con importi che variano in base alla qualità del materiale recuperato da un minimo di 63 sino a 163 euro a tonnellata. A questa inesauribile fonte di guadagno va aggiunto anche il profitto derivante dal costo del trasporto che incide in media dai 20 ai 50 euro più iva per tonnellata.

E’ quanto si è verificato anche per gli abbattimenti dei pini pericolanti rimossi lungo il viale di Castelporziano nel tratto incluso tra via Ermanno Wolf Ferrari e via Canazei durante la scorsa estate (leggi qui).

Anche in questo caso il 4 agosto dello scorso anno il X Municipio con protocollo CO/2023/0112155 comunicava agli uffici competenti che era necessario procedere, a tutela della circolazione stradale e della pubblica incolumità, all’eliminazione degli alberi pericolanti appunto facendo ricorso a procedure di spesa considerate di somma urgenza”.

A seguito di una nuova perizia fitosanitaria le piante abbattute non sono state dichiarate morte in seguito a infestazione da parassiti, come aveva invece concluso l’amministrazione centrale in una precedente pronuncia.

E questo ha fatto sì che i tronchi risultanti dall’azione delle motoseghe non siano stati classificati come “rifiuti speciali” ma smaltiti con procedure che hanno consentito all’azienda incaricata della rimozione di valorizzarli attraverso il loro impiego come compost da rifiuti organici mettendo, tra l’altro, a rischio di contagio gli ecosistemi attraversati dai camion durante il trasporto considerato che una delle cause primarie di diffusione degli organismi che aggrediscono le piante è proprio la loro diffusione per via aerea nell’ ambiente circostante.

Con trattamenti fitosanitari poco costosi gli alberi abbandonati all’estinzione continuerebbero a ridurre l’anidride carbonica e l’inquinamento dell’aria

Un iter semplificato che, tra l’altro, non prevede né la tracciatura del materiale risultante dal taglio né la misurazione del peso iniziale e quello di destinazione del prodotto, ma solo quello accertato al momento in cui viene acquistato sulla base di una mera autocertificazione da parte della ditta incaricata della potatura e che può quindi venderlo sul mercato, appunto, come “cippato”.

Una procedura sbrigativa, sottolinea in buona sostanza LabUr, fonte di un danno erariale conseguente al comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione che, invece di stimare la quantità di legname prodotto e “farselo pagare a peso” in funzione del suo remunerativo impiego lo considera, appunto come un rifiuto del verde di cui sbarazzarsi a pagamento.

Dal punto di vista contabile, infatti, le uscite sostenute per l’eliminazione delle piante vengono classificate come spese ordinarie di manutenzione “spacciandole per potature e sottraendo di fatto risorse alla stessa cura delle alberature”.

Un pregiudizio che va poi quantificato anche in relazione al valore iniziale dei pini abbattuti e che, nel caso dell’Infernetto, ammontano a circa 14.400 euro ciascuno in funzione della loro altezza e della loro circonferenza.

Senza considerare, in questo cahier des doleances di carattere ambientale, il danno il paesaggistico e biologico derivante dalla capacità, irrimediabilmente perduta, di un albero alto 15 metri e con un età media di 80 anni di catturare milioni di atomi di carbonio e cui si aggiunge un onere aggiuntivo di circa 2mila euro per la sua sostituzione attraverso la messa a dimora di giovani piante di appena 2 metri di altezza.

Ecco perché -conclude LabUr- all’interno di questo sistema a Roma, non solo su viale di Castelporziano, chi ne trae profitto è la criminalità organizzata. Siamo ben lontani dalla cosiddetta regola urbanistica di Vancouver, in Canada ed equivalente alla proporzione numerica 3/30/300 e cioè di riuscire a vedere almeno tre alberi dalla finestra, avere 30 alberi nella superficie di un quartiere, contarne 300 nel parco pubblico ubicato entro i 300 metri dalla propria abitazione”.

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