“Non sono riuscito a vedere mio padre per mesi. Hanno impedito a me, mio fratello e alla seconda moglie di comunicare con lui, al punto che non potevamo neanche immaginare quanto le sue condizioni fossero peggiorate. E che, dopo appena 8 mesi dalla sua entrata nella co-housing di via Isernia, la stessa di cui si parla adesso, quella gestita da Maricetta Tirrito, ne sarebbe uscito su una barella, in codice rosso, per morire poche ore dopo, da solo come un cane, senza che nessuno di noi parenti stretti ne sapesse niente”.
La vicenda di Michele raccontata dal figlio: ricoverato nella cohousing di Ardea svelati è morto in condizioni sospette “e solo come un cane”
E’ legata alla casa degli orrori collegata all’arresto di quattro persone e all’interdizione alla professione di un medico la vicenda di Michele: sono parole dettate dalla disperazione quelle di Gilberto. Chiede giustizia per il padre, 78 anni, pensionato che, dopo essere caduto nel marzo nella sua casa nel marzo del 2021, il 7 aprile di quell’anno entra nel villino ad Ardea. Michele viene da Ostia, su suggerimento di sua sorella, che conosce bene l’economa della cohousing e ne ha vantato l’efficienza e il buon funzionamento. I figli di Michele si fidano del giudizio della zia.
La storia di Michele
“Mio padre abitava a Ostia con la sua seconda moglie. Nonostante il tumore alla prostata di recente diagnosi, era un uomo autosufficiente e in buona salute. Si era separato da anni da mia madre e viveva con la sua seconda moglie”, racconta Gilberto, uno dei due figli. La situazione si fa pesante quando, il 19 marzo del 2021, Michele cade in casa. È da solo. Rifiuta l’intervento dell’ambulanza, ma da quel giorno inizia il declino delle sue capacità cognitive e motorie. Nasce una conflittualità tra la moglie di Michele e la sorella, con questa che accusa la moglie sempre più insistentemente di trascurarlo e di non essere in grado di assisterlo. Accuse che vengono notificate, ripetutamente, anche ai figli. I giorni passano e le condizioni psichiche di Michele si fanno sempre più preoccupanti: una notte, arriva a minacciare la moglie con un coltello. Si viene a sapere che i vicini iniziano a temere il peggio, che possa arrivare ad aprire il gas e mettere a repentaglio l’intera palazzina in cui vive. Urge fare qualcosa. La sorella propone di portare l’uomo temporaneamente presso la co-housing di via Isernia, dove era ricoverata anche un’altra sua sorella, a suo dire con ottimi risultati. Inizialmente Michele è reticente, non vuole andare nella struttura, ma si lascia convincere solo perché gli viene spiegato che si tratta di una soluzione temporanea. Una struttura dove avrebbe trovato un po’ di sollievo dalla continua tensione che si respirava in casa, in cui sarebbe stato visitato da un neurologo e dove avrebbe avuto tutta l’assistenza necessaria, per un periodo di tempo comunque limitato.
I primi sospetti del figlio
Ma le cose per Michele non vanno assolutamente come previsto. Passano i giorni, però, della promessa visita con il neurologo non c’è traccia: viene asserito che Michele sia stato visto da un medico, ma non risulta alcuna documentazione scritta. Nel frattempo i figli vanno a trovare il padre e lo trovano peggiorato rispetto al momento del ricovero. È Gilberto che riesce, a fine maggio, a farlo visitare da un neurologo al policlinico Gemelli. E durante il controllo sarebbero emerse delle incongruenze che l’avrebbero insospettito. “E, proprio quando ho iniziato ad avanzare dei sospetti – mio padre non riusciva più a camminare da solo e aveva bisogno della sedia a rotelle – mi è arrivata una diffida da parte di mia zia, che nel frattempo era stata nominata procuratrice di mio padre. Io volevo accertarmi di quali fossero le reali condizioni di mio padre, e farlo visitare, curare, e se il caso portarlo in un’altra struttura. Invece non sono più riuscito a vederlo, né a parlarci. Ogni tanto mia zia mi mandava delle foto. Le ultime sono di luglio: si vede benissimo quanto si sia dimagrito in soli tre mesi. Lei stessa, nel messaggio, lo ammette. Non so se questo deperimento sia dipeso dalla malattia che aveva o altro, dato che tutta la documentazione medica l’aveva mia zia e si rifiutava di condividerla con me. La cosa disumana è che mi arrivavano queste fotografie e io non potevo far niente per lui, non potevo neanche andare a trovarlo e capire il motivo del suo stato con i miei occhi”.
Figli esclusi dalla vita del padre
“Il 13 settembre ho provato di nuovo ad andare a trovare mio padre, insieme a mia madre e a un’amica. Ma veniamo lasciati fuori, e ci dicono che non possono farci entrare. La signora Tirrito non era presente. Allora chiamo i carabinieri, che arrivano di lì a poco. Certo della loro presenza, ed anche da ciò che asseriva il mio avvocato, era solo questione di minuti e finalmente avrei rivisto mio padre. Poco dopo, invece, l’amara sorpresa: dopo aver parlato con la signora Tirrito per telefono, mi riferiscono che non mi è possibile entrare per via della diffida che mi ha fatto mia zia, in veste di procuratrice. Neanche mia madre e la sua amica sono potute entrate, per motivi legati al Covid”.
Per Michele la vita prosegue all’interno della co-housing senza alcun contatto diretto con i figli e l’ex moglie. Fino al 6 dicembre, giorno in cui per l’uomo arriva un’ambulanza. I sanitari lo trovano in gravi condizioni e lo portano in codice rosso al pronto soccorso della Casa di Cura S. Anna di Pomezia. Da lì, in un tentativo disperato di salvargli la vita, viene trasferito al S. Eugenio di Roma, dove muore alle 23:50 dello stesso giorno. Ma quello che riportano i referti dei due pronto soccorso è da brividi.
Si parla di un uomo in “condizioni generali scadute, igienico sanitarie, cute disidratata“. E di un numero di cellulare, lasciato da una “RSA” dove l’anziano era ricoverato, sempre irraggiungibile, dalle 18:51, ora del peggioramento delle condizioni cliniche, fino alla morte.
“Ho saputo della morte di mio padre il giorno dopo, il 7 dicembre, intorno alle 20. Quindi dopo circa 20 ore dopo il suo decesso. Ma la cosa che più mi fa male è che la dottoressa del pronto soccorso abbia scritto, due ore dopo la mezzanotte, che il numero di cellulare della RSA, quello che loro avevano lasciato agli operatori che avevano prelevato mio padre da via Isernia, fosse sempre irraggiungibile. Nessuno della RSA si era preoccupato di come stesse mio padre. Lo hanno lasciato morire solo come un cane”.
Ovviamente l’articolo è la testimonianza del figlio di Michele. La vicenda è oggetto dell’indagine della Procura di Velletri che ha portato all’arresto di quattro persone e all’interdizione dalla professione di un medico. La loro posizione è quella di indagati e bisognerà attendere la sentenza passata in giudicato per definire le rispettive responsabilità.
Siamo pronti ad accogliere le loro posizioni e di tutti gli interessati alla vicenda per fare luce su una storia che ha registrato lutti, dolori e sospette espoliazioni di beni.