24 marzo del 771 a.C., questa sarebbe la data di nascita di Romolo e Remo, desunta dal “Breviarium ab urbe condita” dello storico e retore romano Flavio Eutropio, vissuto nel IV secolo. Due gemelli che condivisero un destino comune fino alla fatidica data del 21 aprile del 753 a.C.; Romolo fondò la città che avrebbe dominato il mondo conosciuto, Remo trovò la morte nel tentativo di varcarne il confine sacro.
Roma nacque dal fratricidio tra Romolo e Remo. Il mito ha diviso gli autori antichi che si sono interrogati sulla valenza di questo delitto
Ripercorriamo le origini della vicenda grazie all’Eneide virgiliana. In seguito alla caduta di Troia per mano achea, pochi troiani superstiti giunsero dopo un lungo peregrinare sulle coste del Lazio.
Li guidava Enea, figlio di Anchise (cugino del re Priamo) e della dea Venere. Enea fondò Lavinium in onore della moglie, Lavinia, figlia di Latino re di Laurentum. Il prodigio della scrofa bianca che dette alla luce trenta porcellini (Eneide, libro VIII), indicò ai troiani il numero di anni che dovevano trascorrere per erigere una nuova città.
Alba Longa, il cui nome trae origine proprio dal mito sopra descritto, fu fondata infatti trent’anni dopo Lavinium dal figlio di Enea, Ascanio (Iulo). Dopo varie generazioni di leggendari re latini, fu la volta di Proca che ebbe due figli, Amulio e Numitore.
Da buoni fratelli essi si spartirono l’eredità paterna; Numitore si prese il regno, Amulio il tesoro. Non contento di essere un uomo ricchissimo, Amulio spodestò Numitore, uccidendone la discendenza maschile e costringendo la nipote Rea Silvia a prendere i voti di vestale che includevano la più rigida castità.
Il dio Marte si invaghì però della sacerdotessa e con lei concepì due gemelli, Romolo e Remo. Una volta nati, i pargoli furono sistemati in una cesta e gettati nel fiume Tevere. La corrente li portò nei pressi del Palatino, dove una lupa li tirò a riva e li allattò mentre un picchio si dette da fare per procurare altro cibo.
Entrambi gli animali erano sacri al dio Marte. Il buon pastore Faustolo li prese nella sua capanna affidandoli alle cure della moglie. I gemelli crebbero in salute e una volta grandi tornarono ad Alba Longa spodestando lo zio e rimettendo sul trono il nonno Numitore. Qualche tempo dopo uccisero Amulio.
I due, molto probabilmente a capo di un gruppo di sbandati, decisero di fondare una loro città su uno dei colli a disposizione nella zona. Ottenuto il benestare di Numitore, Romolo scelse il Palatino, Remo l’Aventino. Il passaggio di un numero maggiore di uccelli nel cielo arrise a Romolo. Era il segno degli dèi che indicava il predestinato che avrebbe tracciato il pomerio.
La tradizione prevedeva un preciso rituale religioso in occasione della fondazione di un insediamento. Interpretato favorevolmente il volere divino, si scavava una fossa circolare “mundus” all’incrocio tra le due future strade principali. Vi venivano interrati alcuni simboli religiosi dal grande valore propiziatorio. Poi si tracciava una linea sacra continua, delimitata da cippi pomerii che sanciva i confini della nuova città.
Parallelamente a questa linea per mezzo di un aratro trainato da un toro e da una vacca, entrambi dal manto bianco, veniva scavato il solco primigenio, lì dove in futuro sarebbero state edificate le mura.
La striscia di terra tra i due solchi era il pomerium vero e proprio, un’area consacrata agli dèi dove sarebbero stati confinati gli spiriti maligni e idealmente tutto ciò che avrebbe potuto arrecare danno alla città e ai propri abitanti. In questo spazio sacro non si poteva costruire e il passaggio era consentito solo in coincidenza delle porte cittadine.
Tornando alla leggenda, sembrerebbe che Remo, facendosi beffe del fratello, osò scavalcare con un balzo il solco primigenio dopo aver oltrepassato armato il pomerium. Romolo lo uccise. Fu una maledizione che Roma pagò nei secoli a venire o un gesto necessario alla sua stessa sopravvivenza?
Tito Livio nel descrivere l’episodio, ne fornisce due interpretazioni. Nella prima attribuisce la contesa tra i due fratelli al male atavico del desiderio di potere. Nella seconda ricalca che il gesto di Romolo fu a difesa dell’inviolabilità del confine sacro, baluardo dell’essenza stessa dell’Urbe.
Plutarco insiste sulle ragioni del fratricidio ribadendo però la sacralità delle mura e la gravità della violazione di Remo. Cicerone, Orazio e Lucano rintracciano nella colpa di Romolo, una sorta di “maledizione” alla base di tutte le guerre civili che hanno afflitto Roma nell’epoca repubblicana. I successivi autori cristiani quali Giustino, Tertulliano e Agostino individuano nel delitto, il “peccato originale” dei Romani.
Romolo aveva diciotto anni quando fondò Roma. Nel compiere il terribile gesto a difesa di quel primo solco disse: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura» (Livio, Ab Urbe condita, I). Egli si fece iniziatore di un principio che rappresentò per secoli uno dei cardini della Civiltà romana. Il rispetto e la sacralità del pomerium capitolino sopravvissero fino all’epoca costantiniana. Furono alla base della tenacia e della perseveranza romana, il fondamento stesso di un villaggio di pastori che divenne un impero.
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