Mari inquinati, microplastiche nella catena alimentare: a rischio la salute umana

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Greenpeace Italy returns to the Tyrrhenian Sea, in the area of the Pelagos Sanctuary, with a tour of research and documentation, exposing threats to biodiversity and to all of us in an area that should be “protected”. Onboard the ship Bamboo, owned by the Exodus association and together with the CNR of Genoa, Greenpeace is exposing the impacts of the plastic and microplastic pollution.

Scampi alla plastica, zuppa di scorfano al polietilene, acciughe e sgombri al forno con polistirolo: dai risultati dell’ultima ricerca di Greenpeace sulla presenza di microplastiche nei pesci, il menù degli italiani questa estate si presenta molto poco salutare. Ma da dove arrivano le particelle di plastica che inquinano così a fondo i nostri mari? Gli investigatori dell’associazione ambientalista le hanno scovate negli ingredienti di alcune note marche di detersivi da bucato.

Microplastiche in mare, dai pesci alla catena alimentare: la nostra salute a rischio

Dalla ricerca condotta da Greenpeace nel Mar Tirreno centrale, con l’ausilio dei laboratori del CNR di Genova, è emerso che il 35 per cento dei pesci e dei frutti di mare, consumati abitualmente sulle nostre tavole, come cozze, scampi, scorfani, acciughe e sgombri, ha ingerito fibre tessili e microplastiche (frammenti di dimensioni inferiori ai 5 millimetri).

Le frequenze maggiori di ingestione sono state trovate addirittura nei pesci provenienti dalle isole dell’Arcipelago Toscano, nell’area del Santuario dei Cetacei.

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“Insieme all’Università Politecnica delle Marche e al Consiglio Nazionale delle Ricerche di Genova, abbiamo esaminato oltre 300 organismi rappresentativi di diverse specie di pesci e invertebrati”, spiegano i ricercatori di Greenpeace.

“I risultati di questo studio confermano la presenza di plastica nelle specie marine che consumiamo quotidianamente: una contaminazione che mette a rischio l’ambiente e la nostra salute“, sottolineano gli attivisti.

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L’origine dell’inquinamento da microplastiche

Ma da dove arriva la microplastica che inquina il Mar Tirreno?  Gli investigatori di Greenpeace hanno scoperto che tra gli ingredienti di alcuni tra i detersivi per bucato più comuni, che troviamo sugli scaffali di tutti i supermercati, è presente plastica liquida, che finisce dalla lavatrice direttamente nell’ambiente e nel mare.

I risultati dell’attività di indagine sono stati pubblicati nel rapporto dell’associazione ambientalista intitolato “Plastica liquida: l’ultimo trucco per avvelenare il nostro mare”. “Abbiamo fatto indagini di laboratorio per verificare nei detersivi la presenza di materie plastiche inferiori ai 5 millimetri, le cosiddette microplastiche”, spiega una nota diffusa da Greenpeace.

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“Interpellate, le aziende hanno confermato l’uso di plastiche come ingredienti dei detergenti – continua la nota – e la maggior parte è in formato liquido o solubile, non solido. Su 1.819 prodotti controllati il 23% contiene almeno un ingrediente in plastica.

“I marchi con una percentuale maggiore di prodotti con plastica – afferma Greenpeace – sono:

Procter & Gamble (53% con prodotti a marchio Dash, Lenor e Viakal),

Colgate–Palmolive (48% con prodotti a marchio Fabuloso, Ajax e Soflan)

Realchimica (41% con prodotti a marchio Chanteclair, Vert di Chanteclair e Quasar)”.

Ogni giorno insomma, attraverso l’uso di detergenti per il bucato, rilasciamo quindi materie plastiche nell’ambiente e nel mare. L’Unione Europea sta per varare una norma che vieta l’utilizzo di plastica solida dei detersivi, ma non quella in forma liquida o solubile.

E così, spiega Greenpeace, in pratica le aziende hanno già trovato il modo per aggirare questa futura restrizione, rinunciando alle microplastiche solide e ricorrendo alla plastica liquida, “continuando così a fare profitti a scapito del Pianeta”.

Marchi come Coop e Unilever hanno già espresso la volontà di eliminare questi ingredienti dai loro prodotti entro il 2020: “una decisione che ci conferma che queste sostanze sono già facilmente sostituibili”, conclude Greenpeace.

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