Gli esperti del Laboratorio di Urbanistica puntano l’indice contro una speculazione che ha devastato la tenuta di Castelporziano in nome di interessi privati
L’incuria in cui è stata abbandonata la pineta di Castelporziano ha prodotto, negli ultimi 6 anni, più danni di quelli causati dal tremendo incendio del 4 luglio del 2000 quando andarono in fumo circa 300 ettari di parco. Secondo uno studio elaborato dal Laboratorio di Urbanistica Labur dal 2018 a quest’anno dentro la tenuta sono andati perduti circa 525 ettari di bosco.
Un disastro ambientale provocato sì da diverse epidemie, ma con la complicità consapevole tipica di un delitto premeditato perpetrato attraverso il mancato utilizzo di trattamenti sanitari di endoterapia che l’amministrazione locale avrebbe dovuto, peraltro, somministrare per legge e a costi di gran lunga inferiori all’abbattimento di piante ormai morte e pericolanti.
In sostanza nessuno si è opposto alla diffusione di due micidiali alleati. Il coleottero scolitide (Tomicus destruens) e la cocciniglia tartaruga (Toumeyella parvicornis) che, dietro alla loro devastante azione hanno lasciato una moltitudine di pini “deperienti, schiantati o morti in piedi”, scrivono gli autori dello studio.
Un’omissione colpevole, non soltanto dal punto di vista etico, ma anche da quello strettamente giuridico. Come si desume dal “Regolamento Capitolino del verde pubblico e privato e del paesaggio urbano di Roma Capitale”, approvato il 22 marzo 2021 con Deliberazione dell’Assemblea Capitolina n.17.
Un codice posto a baluardo di tutti i parchi della capitale e in cui si afferma, in modo inequivocabile, che i pini, giganti del paesaggio romano, sono stati “oggetto di tutela, anche ai fini del loro ripristino, in quanto caratteristici di determinati periodi storici” e soprattutto “specie identitaria” del patrimonio boschivo capitolino. Con esplicito riferimento alla specie più diffusa in città e sul suo litorale: il pino domestico, classificato come Pinus Pinea e non il molto meno rappresentato pino marittimo (Pinus Sylvestris) o tantomeno dell’inesistente pino d’Aleppo (Pinus Halepensis) e Roma e nel suo hinterland.
La cosa più grave, secondo LaBur è che questo omicidio premeditato della pineta di Castelporziano è avvenuto scientemente sulla base di presunti pareri qualificati in cui si è stato, per esempio, sottolineato che “il taglio fitosanitario di centinaia di ettari di pineta secolare, seppur possa sembrare una violazione dell’integrità ecosistemica del sito, è in realtà un’azione che non solo eliminerà un soprassuolo morente, ma che genererà molti effetti positivi”.
Tra i tanti “pareri qualificati” sulla base dei quali l’amministrazione capitolina ha deciso di soprassedere a qualsiasi operazione conservativa degli alberi sopravvissuti al rogo del 2000 ne figurerebbe un altro in cui si rimarca che “liberando il terreno dalla copertura arborea dei pini domestici (i quali, va ricordato, sono stati piantati artificialmente) la rinnovazione sottostante già insediata di specie autoctone sarà libera di crescere”.
Un ‘pensiero scientifico’ criminale, accusano gli autori dello studio, che all’analisi teorica allegano anche un lungo elenco di atti e di deliberazioni che, a loro giudizio, dimostrano il fatto che “il più grave disastro ambientale degli ultimi due secoli” abbia “come unico scopo quello di trarre profitto dall’infestazione degli insetti, colpevolmente lasciata incontrollata, per recuperare il materiale legnoso per inserirlo nel business opaco delle biomasse”.
E sì perché gli abbattimenti costano molto di più dei trattamenti fitosanitari, e generano profitti che si estendono al legname risultante dagli abbattimenti finanziati con soldi pubblici che viene poi venduto dagli appaltatori a carissimo prezzo presso i rivenditori di pallet e di legno da ardere e senza alcun ritorno per le casse del comune.