Scoperchiata la prima frania della 'Ndrangheta radicatasi nel 2015: condanne per 17 imputati
Diciassette condanne pesanti, nonostante la scelta del rito abbreviato: smantellata così (in attesa del giudizio definitivo) a piazzale Clodio una prima frangia della prima locale di ‘Ndrangheta scoperchiata a Roma. Riconosciuta l’associazione di stampo mafioso. La pena più pesante è stata riservata al boss Antonio Carzo, ritenuto il presunto capo della struttura romana.
Carzo, il boss ritenuto insieme con Vincenzo Alvaro a capo della prima “locale” di ‘ndrangheta nella Capitale smantellata con la maxi inchiesta “Propaggine”della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, è stato condannato a 20 anni di carcere.
Pene sostanziose anche per i figli: 16 anni e 6 mesi per Domenico e 12 anni e 2 mesi per Vincenzo.
Tra gli imputati con un ruolo cruciale anche Francesco Calò, calabrese trapiantato a Roma che difeso dagli avvocati Pietro e Gian Maria Nicotera, era accusato di aver detenuto un numero imprecisato di armi comuni da sparo (pistole), che metteva a disposizione della “costola” del locale di Roma. Con l’aggravante – come ricostruito dalla procura – di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa unitaria denominata “ndrangheta”. Per lui la condanna a 12 anni di carcere.
Il 12 settembre intanto si è aperto davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma il processo ordinario per gli altri imputati – sotto inchiesta erano finiti 66 persone – tra cui l’altro boss dell’organizzazione, Vincenzo Alvaro.
Nell’inchiesta, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò con i pm Giovanni Musarò, Francesco Minisci e Stefano Luciani, venivano contestate, a vario titolo, le accuse di associazione mafiosa, cessione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni, truffa ai danni dello Stato aggravata dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta, riciclaggio aggravato, favoreggiamento aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa.
Carzo e Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, in provincia di Reggio Calabria, erano al vertice della “locale” che operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria. “Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto”, riporta una intercettazione finita agli atti.
A Carzo è stato contestato il ruolo di promotore, avendo ricevuto dall’organo collegiale di vertice “la Provincia” l’autorizzazione alla costituzione della locale di Roma, e quello di direzione insieme a Vincenzo Alvaro.
Nell’estate del 2015, Carzo avrebbe ricevuto, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine), l’autorizzazione per costituire una struttura locale che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di `ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d’origine.
Il gruppo avrebbe agito su tutto il territorio di Roma con una gestione degli investimenti nel settore della ristorazione (locali, bar, ristoranti e supermercati) e nell’attività di riciclaggio di ingenti somme di denaro.
In base alle ricostruzioni degli inquirenti dopo l’estate del 2018 Carzo si sarebbe trasferito dalla Cecchignola a Cosoleto perché temeva che sarebbe stato destinatario di provvedimenti custodiali emessi dall’autorità giudiziaria di Roma e lì avrebbe continuato a “coordinare la “costola” del sodalizio da lui capeggiata, servendosi a tal fine del figlio Domenico, con il quale era costantemente in contatto”.