Social network, il licenziamento a portata di un tweet

Sono stato licenziato per un post pubblicato sul mio profilo social durante il fine settimana. Possibile che non si possa liberamente dire ciò che si pensa?

La domanda che questo lavoratore ha sollevato è di quelle importanti perché impone di indagare in che modo un’opinione, in qualunque forma espressa, possa travalicare i confini del legittimo diritto di critica e assumere i lineamenti di un illecito.

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e di farlo con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione. Così è scolpito nell’art. 21 della nostra Costituzione che è lì a rammentare che non c’è democrazia senza una reale libertà di espressione.

Ciò vale sempre e in qualunque contesto. Quindi anche sul posto di lavoro.

È allora legittimo rendere un giudizio critico sul proprio datore di lavoro soltanto perché corrisponde ad un pensiero, oppure no?

Non sempre.

A rilevare è certamente cosa si dice o si scrive e in che modo si sceglie di darne diffusione.

Il fatto che accada nel fine settimana o, per meglio dire, fuori dell’orario di lavoro non costituisce, per ciò solo, una ragione in qualche misura esimente. Il comportamento extra lavorativo, infatti, può certamente avere rilevanza disciplinare allorquando provochi comunque una irrimediabile lesione di quel legame fiduciario che sorregge la funzionalità del rapporto di lavoro.

I social network occupano un posto di gran lunga prevalente tra i potenziali strumenti per veicolare un messaggio. Il loro utilizzo, troppo spesso disinvolto, può rivelarsi inappropriato e comportare conseguenze molto serie potendo persino, tornando così alla domanda del lavoratore, legittimare un licenziamento.

Un post con contenuti offensivi, denigratori o comunque tali da danneggiare l’immagine o la reputazione del datore di lavoro compromette senza dubbio quella fiducia. Non va dimenticato che sul lavoratore incombe pur sempre un dovere di fedeltà. Più difficile è stabilirne la capacità lesiva quando il messaggio è meno diretto o quando maschera, sotto false apparenze, un intento tutt’altro che lodevole. Di contro, non merita certamente la massima sanzione disciplinare quella critica formulata con toni pacati e oggettivamente non offensivi.

Come orientarsi allora.

Intanto con un utilizzo responsabile dello strumento, con la consapevolezza che vi è una ragguardevole differenza tra una chat privata – come tale protetta da principi di inviolabilità – e la pubblicazione su uno spazio virtuale capace di diffondere il messaggio ad una moltitudine indistinta ed esponenziale di persone, che può assumere valenza diffamatoria.

E poi ricordando che l’esercizio del diritto di critica verso il datore di lavoro non ha rilievo disciplinare se quanto scritto rispetta, prima di tutto, la verità oggettiva e fintanto che il pensiero si esplica con modalità che non valicano i parametri della correttezza e del decoro.

Insomma, ai “post” l’ardua sentenza.

Avv. Ivano Bracci

Studio Legale Guerriero Ortenzi Bracci

avvocati@guerrierortenzibracci.it