Tra gli imputati una dozzina sono accusati di aver fatto parte della "locale" di Roma o di averla spalleggiata
Mafia calabrese a Roma: parte a piazzale Clodio l’udienza che dovrà decidere se la ndrangheta calabrese abbia messo o meno radici nella Capitale intorno al 2015. Il gip Tamara De Amicis ha fissato l’udienza preliminare per 66 imputati, di cui una dozzina accusati di aver avuto un ruolo chiave. Il procedimento si aprirà il 12 aprile.
I pm della Dda di Roma hanno chiesto il rinvio a giudizio della prima sospetta struttura “locale” di ‘ndrangheta che sarebbe stata attiva per anni nella Capitale reinvestendo proventi illeciti in attività commerciali.
Secondo l’impianto accusatorio del pm Giovanni Musarò, a capo dell’organizzazione ci sarebbero stati Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, entrambi ritenuti appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Casoleto, in provincia di Reggio Calabria. La “locale” avrebbe cominciato ad operare a Roma dopo avere ottenuto il “via libera” dalla casa madre in Calabria.
Tra i reati contestati anche cessione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco.
Le indagini hanno evidenziato come fino al settembre del 2015 non esistesse una “locale” nella Capitale, anche se sul territorio cittadino operavano numerosi soggetti appartenenti a famiglie e dediti ad attività illecite.
Nell’estate del 2015, Carzo avrebbe ricevuto, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, dall’organo collegiale posto al vertice dell’organizzazione unitaria (la Provincia e Crimine), l’autorizzazione per costituire una struttura locale che operava nel cuore di Roma secondo le tradizioni di `ndrangheta: riti, linguaggi, tipologia di reati tipici della terra d’origine. Il gruppo agiva su tutto il territorio di Roma con una gestione degli investimenti nel settore della ristorazione (locali, bar, ristoranti e supermercati) e nell’attività di riciclaggio di ingenti somme di denaro.
In base alle ricostruzioni degli inquirenti dopo l’estate del 2018 Carzo si sarebbe trasferito dalla Cecchignola a Cosoleto perché temeva che sarebbe stato destinatario di provvedimenti custodiali emessi dall’autorità giudiziaria di Roma e lì avrebbe continuato a “coordinare la “costola” del sodalizio da lui capeggiata, servendosi a tal fine del figlio Domenico, con il quale era costantemente in contatto”.
Tra gli imputati con un ruolo cruciale anche Francesco Calò, che difeso dall’avvocato Pietro Nicotera, viene accusato di aver detenuto un numero imprecisato di armi comuni da sparo (pistole), che metteva a disposizione della “costola” del locale di Roma capeggiata da Antonio Carzo. Con l’aggravante – come ricostruito dalla procura – di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa unitaria denominata “ndrangheta”.
Tra le vittime anche un imprenditore di Pomezia, che è anche nella lista degli imputati, avrebbe aiutato l’associazione a reinvestire denaro trovandosi a sua volta minacciato e taglieggiato.