Aldo Scione, 64enne di Ardea, aveva fatto il primo ingresso in ospedale per una caduta: dopo un mese e mezzo la morte. La frattura al femore non compresa
La frattura al femore non compresa e curata con l’aspirina, e a seguire un intervento riparatorio – tardivo e sbagliato – che ha condotto al paziente la morte. Per il giudice delle indagini preliminari di Velletri dietro alla morte di Aldo Scione, 64enne di Ardea, poteva, anzi doveva, essere evitata. Da qui il rinvio a giudizio di due camici bianchi. L’accusa omicidio colposo.
Il 64enne di Ardea era deceduto nel gennaio 2017; “dopo un mese e mezzo da incubo
nelle mani della sanità italiana” aveva denunciato il figlio Nicola. A cinque anni dal decesso la svolta giudiziaria. Per due medici che avevano seguito il paziente il 15 novembre si aprirà il processo.
A disporre il rinvio per una radiologa all’epoca in servizio al Sant’Anna di Pomezia, e per un ortopedico dell’ospedale di Anzio ora in pensione, il gip Emiliano Picca.
Per la procura “i due indagati con condotte autonome ma entrambe influenti nel determinismo dell’evento, caratterizzate da negligenza e imperizia, causavano la morte del paziente“.
Il calvario del signor Scione che, a parte un ictus, ben superato, secondo la famiglia godeva di buona salute, inizia il 3 dicembre 2016 dopo una brutta caduta in casa e un’errata diagnosi.
Il 64enne lamenta forti dolori alla gamba sinistra e il figlio, dopo averlo condotto senza risultato, l’indomani, al Pronto Soccorso di Anzio, il 6 dicembre lo accompagna alla Casa di Cura Sant’Anna.
E qui secondo l’accusa, sulla scorta della consulenza tecnica medico legale disposta ad hoc, avviene il primo errore penalmente rilevante, perché la radiologa sottopone il 64enne ad accertamento radiografico dell’arto “senza però rilevare la frattura pertrocanterica del collo del femore“.
Scione viene dimesso con la prescrizione di semplice Tachipirina, “ritardando così in maniera rilevante – si legge nelle carte dell’inchiesta – un trattamento chirurgico che in realtà avrebbe dovuto essere praticato nel minor tempo possibile per ridurre il rischio d’insorgenza delle complicanze connesse all’allettamento prolungato“, tanto più pericolose “in un paziente di 65 anni già affetto da emisindrome spastica da ischemia cerebrale“.
Perdurando però i dolori, i familiari si rivolgono a una fisioterapista e a un fisiatra, che notano subito la posizione scorretta del bacino dovuta al femore fuori asse.
Nuova chiamata al 118 e stavolta, all’ospedale di Anzio, dalle lastre emerge la frattura del femore sinistro, ma sono passati 18 giorni: è il 21 dicembre.
I medici decidono di intervenire chirurgicamente, ma anche qui si sommano altri errori. “Dopo aver finalmente individuato la frattura“, si legge ancora negli atti d’indagine, il radiologo ora a processo il 23 dicembre, sottopone il paziente “a un primo intervento chirurgico di osteosintesi con chiodo endomidollalre, caratterizzato però da evidente errore tecnico consistito nel non corretto posizionamento della vite cefalica, la cui mobilizzazione era riscontrata da accertamento radiografico eseguito appena 23 minuti dopo la fine dell’operazione”.
In questo modo si è reso necessario un nuovo intervento “riparatore”, eseguito il 24 dicembre, “per la rimozione e successivo riposizionamento della vite, che però sottoponeva il paziente a ulteriore stress operatorio aumentando il rischio di infezione, come poi verificatosi, con prolungamento dell’immobilizzazione“.
Il 30 dicembre, infatti, il signor Aldo viene trasferito in una casa di cura ad Anzio, per la riabilitazione, ma va incontro a un progressivo deterioramento delle sue condizioni di salute generale: non ha appetito, respira affannosamente e denota stati confusionali.
Problematiche ripetutamente segnalate dai familiari ai sanitari, che però minimizzano, ascrivendole a stanchezza e inappetenza. Non è così. Presto gli riscontrano una bronchite, poi devono sottoporlo a terapia antibiotica per il manifestarsi di un’infezione alla gamba, il 15 gennaio lo trovano incosciente, in coma diabetico, sul letto.
Il 17 gennaio lo riportano all’ospedale di Anzio, dove subentra anche una polmonite bilaterale massiva.
Il 21 gennaio il suo cuore cede. Decesso dovuto, sempre per citare gli atti d’inchiesta, “a sindrome ipocinetica che evolveva in modo progressivo verso un’insufficienza cardiorespiratoria letale, determinata dalla prolungata immobilizzazione a letto del paziente in conseguenza delle omissioni e degli errori suddetti“.
Superato lo choc per una perdita così pesante e dolorosa, anche per tutte queste vicissitudini, i familiari si sono attivati per fare piena luce sull’accaduto.
Tramite i consulenti legali Riccardo Vizzi e Angelo Novelli si sono rivolti a Studio 3A-Valore S.p.A., società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e tutela dei diritti dei cittadini, ed è stato presentato un esposto chiedendo all’autorità giudiziaria di disporre accertamenti. Dopo cinque anni il primo punto giudiziario.
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