Il premier Mario Draghi teme che salti il Governo per la questione delle concessioni balneari e impone il voto di fiducia
In queste ultime ore stiamo assistendo a fibrillazioni del Governo su un tema spinoso che si trascina da anni: la messa all’asta delle concessioni demaniali balneari. Gruppi politici all’interno dell’Esecutivo ma anche l’opposizione di Fratelli d’Italia, chiedono di stralciare la questione stabilimenti balneari dal Decreto Concorrenza (leggi qui). E il premier Mario Draghi ha dovuto fare ricorso al pugno di ferro per richiamare all’ordine la maggioranza, imponendo il voto di fiducia sulla materia.
Per cercare di fare ordine sullo spinoso tema dell’uso del demanio marittimo c’è bisogno di fare un piccolo riassunto delle puntate precedenti. Episodi che muovono le mosse da una direttiva ormai vecchia di 16 anni. Stiamo parlando della Direttiva Bolkestein sui servizi e sulla libera concorrenza. Nel 2006, con quella direttiva comunitaria, l’Italia “subì”, è proprio il caso di dire, il diktat dell’UE di mettere all’asta una serie di servizi, tra i quali le concessioni demaniali marittime.
Nella definizione dell’origine di questa complessa vicenda è il caso di usare il verbo “subire” perché quello delle concessioni balneari è un fenomeno che nell’Unione Europea riguarda ed è stato imposto essenzialmente a tre nazioni del sud del Continente: la Spagna, L’Italia e la Grecia. La Grecia, sottoposta al default e al commissariamento del Bilancio, non potette opporsi. La Spagna, invece, escogitò subito un espediente per aggirare la Bolkestein: il demanio marittimo venne spostato e limitato a una fascia di 5 metri, sicchè tutte le concessioni furono trasferite nella competenza dei comuni costieri e quindi solo “gestite” da privati senza l’obbligo dell’evidenza pubblica.
L’Italia rimase con il “cerino in mano” per il lassismo dei politici di turno e per un certo ossequio alle maggiori potenze economiche continentali. Rinvia oggi, rinvia domani, dopo un maldestro tentativo di proroga fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere (legge 145/2018 ministro della Lega Centinaio, Governo Conte I), si è arrivati alla sentenza del Consiglio di Stato del 9 novembre 2021 che ha disconosciuto quella legge gialloverde (leggi qui): le concessioni ancora vigenti hanno validità fino al 31 dicembre 2023. Entro quella data le amministrazioni devono effettuare una ricognizione sullo stato del Demanio marittimo e lanciare le gare di evidenza pubblica.
E’, appunto, nel rispetto di quella sentenza che Mario Draghi si appella ai partiti affinchè il Parlamento ratifichi il Decreto Concorrenza e quindi il riordino della materia in fatto di Concessioni Marittime. Il pagamento del secondo stralcio di aiuti comunitari Pnnr dipende anche da quello, visto che peraltro da anni siamo sotto infrazione per il mancato rispetto della Bolkestein.
Il tema è particolarmente sentito nelle regioni marittime che presentano una forte presenza di stabilimenti balneari: tra le più interessate la Liguria, l’Emilia Romagna, il Lazio, la Campania. A Roma, l’area più densamente caratterizzata dal fenomeno, la questione riguarda non meno di 150 concessionari tra quelli presenti a Ostia, Fiumicino, Fregene, Torvaianica e Ladispoli.
Siamo in piena campagna elettorale (a giugno si vota in alcune regioni e in diversi capoluoghi di Provincia, nel 2023 le urne riguarderanno il rinnovo del Parlamento e di diverse altre regioni) ed è naturale che per motivi politici ci sia chi difende gli interessi di una categoria, quella degli stabilimenti balneari, che occupa decine di migliaia di persone tra lavoratori e imprenditori. Sul fronte opposto, a favore della liberalizzazione del mercato, ci sono quelli del mare libero, senza gestori, senza balzelli da pagare, della spiaggia di tutti.
In mezzo ci sono operatori economici che, stando alle norme attuali, si tramandano il diritto concessorio di generazione in generazione, ne fanno commercio, pagando spesso canoni sproporzionati rispetto alla resa delle attività turistiche.
Ad onor del vero, va detto che il canone concessorio non è l’unico tributo che devono affrontare i gestori dei lidi che sugli stabilimenti devono corrispondere anche l’Imu e la non meno onerosa tassa della nettezza urbana. E’ altrettanto vero, però, che la monarchia in Italia è finita da oltre 70 anni e che è anacronistico che un bene dello Stato divenga un “cespite ereditario”.
Un altro aspetto del quale è giusto che si tenga conto è quello che una volta si chiamava avviamento commerciale o investimento d’impresa. L’imprenditore balneare che sarà costretto a lasciare una struttura sulla quale ha investito impegno e denaro, è opportuno che riceva dall’operazione un equo indennizzo. A carico di chi? Del subentrante o dello Stato? E’ uno dei nodi da risolvere per non creare contenziosi giudiziari che rischiano di vanificare l’operazione per decenni.
In questa intricatissima questione, sul piatto della bilancia vanno considerati, però, anche i rischi che un’operazione quale quella dell’asta sulle concessioni comporterà sugli assetti economici della nazione. Non vogliamo sostenere, ovviamente, che le spiagge siano un “bene strategico” per l’Italia ma, certo, costituisce un patrimonio di altissimo valore aggiunto, un’industria capace di attirare gli interessi di gruppi economici dalle finanze di provenienza sospetta o di multinazionali alla conquista di “terreni” da sfruttare e sottomettere. E, obiettivamente, in questa epoca di globalizzazione (anche delle mafie) è un rischio che la nostra disastrata economia non si può permettere.