Giulio Cesare passò il Rubicone tra il 9 e il 10 gennaio del 49 a.C. Nel farlo pronunciò la celeberrima frase "Alea iacta est" tradotta "Il dado è tratto".
Correva l’anno 49 a.C. e tra il 9 e il 10 gennaio, (alcuni testi riportano la datazione tra il giorno 11 e 12), la Legio XIII al comando di Giulio Cesare passò in armi il Rubicone. Il fiume segnava il confine naturale tra la Gallia Cisalpina e il territorio “italico” considerato parte integrante di Roma.
Per dovere di cronaca, accenno solamente alla complicata questione dell’identificazione del Rubicone. Basta solo sapere che l’attuale piccolo fiume denominato tale è lungo circa 35 Km e scorre nella provincia di Forlì-Cesena. Fino agli anni Venti del Novecento, si chiamava “Fiumicino” e solo nel 1932, con decreto firmato da Benito Mussolini, fu identificato con lo storico Rubicone. Ancora oggi permane incertezza se l’antico Rubicone vada riconosciuto appunto nel Fiumicino o nell’Uso o nel Pisciatello, tutti corsi d’acqua a regime torrentizio che passano nel territorio suddetto.
In ogni caso, Giulio Cesare superò con slancio e determinazione tale confine, dando di fatto inizio alla guerra civile e allo scontro con Gneo Pompeo Magno, suo principale antagonista. Questi era soprannominato “Il Grande” perché era un generale vittorioso e per una ricercata e voluta somiglianza con Alessandro Magno, il mitico sovrano macedone. Purtroppo il suo astro era in caduta libera e la Storia con lui non fu affatto clemente.
Da questo evento scaturirono ben due citazioni celeberrime. La prima, la più conosciuta, nei secoli è entrata di diritto nel nostro linguaggio comune. Parlo della frase “Alea iacta est“, tradotta in italiano “Il dado è tratto“, attribuita a Giulio Cesare dallo storico e biografo romano Svetonio, col senso metaforico di “la decisione è presa“. Riguardo questa locuzione latina sussistono però dei legittimi dubbi.
Plutarco narra che Cesare avrebbe esclamato la frase in greco:
«Ἑλληνιστὶ πρὸς τοὺς παρόντας ἐκβοήσας, «Ἀνερρίφθω κύβος», διεβίβαζε τὸν στρατόν’.» – «Egli [Cesare] dichiarò in greco a gran voce a coloro che erano presenti: “sia lanciato il dado” e condusse l’esercito.» (Plutarco, Vita di Pompeo, 60 2.9).
E le fonti greche che descrivono il famoso episodio, riportano infatti un’espressione che si potrebbe tradurre con “Sia lanciato il dado” o “Si getti il dado“, corrispondenti a quanto scritto nelle “Vite parallele” del biografo originario di Cheronea. Secondo Erasmo da Rotterdam (1518), c’è un errore di trascrizione dallo scritto originale di Svetonio. “Est” sarebbe in realtà “esto”. In tal modo, aggiungendo una sola “o”, la traduzione dell’espressione corrisponderebbe a quanto avallato dalle fonti elleniche e da Plutarco per una questione di modo e di tempo del verbo. “Esto”, imperativo futuro 2°/3° singolare, si accorda con l’imperativo di terza persona tramandato appunto da Plutarco.
Evidentemente conscio di quanto stava facendo, ben prima di pronunciare “Alea iacta est” o “Iacta alea esto”, Giulio Cesare si lasciò andare ad un’altra massima dal retrogusto di sentenza tombale per i suoi avversari politici.
Fermo sulla sponda gallica del Rubicone, proiettando lo sguardo in avanti, Cesare avrebbe proferito in tono solenne: «Stando qui inizia la mia rovina. Venendo là inizia quella degli altri.»
Si tratta di un’aforisma attribuito al condottiero capitolino, seppur in assenza di fonti riscontrabili. Può esserci utile per un’ultima riflessione in chiusura di articolo. Perché Cesare oltrepassò il Rubicone, marciando con le sue legioni alla volta di Roma? Poteva evitare di far esplodere una sanguinosa guerra civile?
Certamente. Cesare avrebbe dovuto eseguire gli ordini del Senato congedando i suoi soldati e tornando a Roma da privato cittadino senza alcuna carica magistratuale a proteggerne la persona. Nell’Urbe avrebbe trovato due consoli, Lentulo Crure e Claudio Marcello, suoi feroci avversarsi e il Senato, quasi del tutto contro. Sarebbe stato ucciso?
Probabile. Che fine avevano fatto nel frattempo i suoi storici alleati. Il ricco Crasso era morto nel 53 a.C. a Carre, seguendo improbabili sogni di gloria contro i Parti. Pompeo era diventato l’uomo del Senato, il “difensore della patria”, il simbolo stesso della fazione più ostica e conservatrice della politica romana. Aveva ragione lo storico francese Jérôme Carcopino quando scrisse nel suo saggio “Giulio Cesare” (1935):
«Fino a quando i tre uomini rimarranno solidali non ci sarà né legge né fazione né individuo capace di opporsi al loro volere.»
Oltrepassando il Rubicone, Giulio Cesare mandò in rovina i suoi avversari e chiuse l’epoca e l’epopea repubblicana romana. Una repubblica in crisi da decenni, persa tra corruzione, congiure, omicidi, rivolte e liste di proscrizione. I tempi per una svolta erano evidentemente maturi. Una svolta “imperiale” che bussava con prepotenza alle deboli porte repubblicane.
“Alea iacta est“, “Il dado è tratto“, fu davvero una frase frutto di una decisione dalla quale non si poteva più tornare indietro. Una scelta che cambiò in un solo giorno, il corso della Storia. E a pronunciarla fu probabilmente quello che la Storia riconosce come il più grande condottiero dell’antichità, al pari di Alessandro Magno…
Fonti bibliografico e note:
canaledieci.it è su Google News:
per essere sempre aggiornato sulle nostre notizie clicca su questo link e digita la stellina in alto a destra per seguire la fonte.