Storia di Emanuele, veterano ferito in una missione di pace (VIDEO)

La vicenda di Emanuele Valenza, rimasto gravemente ferito in Iraq alla luce del duplice omicidio di connazionali in Congo. La forza di recuperare la normalità nonostante la disabilità

Questa è la storia di Emanuele Valenza, 40 anni, veterano della guerra al terrorismo in nome della pace. Se volete è il risvolto in positivo ma altrettanto doloroso di una vicenda recentissima, quella dell’uccisione di due nostri connazionali in missione di pace in Congo.

La vicenda di Emanuele Valenza, militare gravemente ferito in Iraq: la forza di recuperare la normalità nonostante la disabilità

Il triplice omicidio consumato in Congo il 22 febbraio nei confronti di due nostri connazionali, l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, più il loro autista congolese, riporta all’attualità il senso delle nostre missioni all’estero e il prezzo che se ne paga. La storia di Emanuele Valenza è emblematica sotto questo punto di vista: due anni fa questo ragazzone nato a Ostia e arruolato nella Marina Militare, è rimasto gravemente ferito in Iraq insieme ad altri quattro commilitoni italiani. A causa dell’esplosione di un ordigno, Emanuele ha perso una gamba, tranciata dalle schegge.

Emanuele Valenza dopo quell’episodio è stato posto in congedo con il grado di Secondo Capo Scelto.

Come sono andate le cose?

Nel 2019 conducevamo un’operazione di affiancamento oltre che di addestramento delle forze locali  volta a consolidare quella che è la leadership politica e sociale del Governo riconosciuto in Iraq. Nello specifico eravamo nella regione del Kurdistan iracheno, riconosciuta dallo Stato ufficiale. Nel portare avanti questa operazione ciò che succede è che siamo stati investiti da un attentato terroristico a mezzo di un ordigno esplosivo improvvisato. Purtroppo in questa vicenda in cinque di noi siamo rimasti vittime di questa esplosione: in tre abbiamo subito delle amputazioni e un quarto ha riportato una serie di lesioni agli organi interni”.

Lei, dunque, ha pagato pesantemente questa sua missione. Lo Stato con quale tipo di attenzione e di assistenza l’ha ripagata?

Le istituzioni sono sensibili. Ci sono una serie di canali preferenziali per i veterani. Il problema è che la buona volontà degli individui a volte cozza con questa farraginosa burocrazia che caratterizza il nostro sistema. Purtroppo i tempi e le lungaggini a volte diventano veramente complicate da sciogliere”.

Lei è stato anche supportato da associazioni di volontariato?

Devo dire che scopro con grande piacere un’associazionismo che davvero funziona. Io, nello specifico, sono stato aiutato dall’associazione Anglat (Associazione Nazionale Guida Legislazione Andicappati Trasporti n.d.r.), che è un’associazione che si occupa della mobilità. Quando parliamo della mobilità parliamo di indipendenza. In un caso come il mio la perdita di una parte dell’arto inferiore comporta come prima cosa, automaticamente, il decadimento della patente di guida e l’Anglat mi ha aiutato in questo, nel recuperare autonomia negli spostamenti”.

C’è chi sostiene che le missioni, e quindi questo rischio, siano ben remunerate da parte dello Stato. Ne vale la pena? Ha ancora un senso tutto questo?

Io penso che ci siano tutta una serie di ragioni politiche e anche di relazioni internazionali dalle quali non ci si possa esimere. Al di là dell’aspetto diciamo sociologico e del motivo per il quale l’occidente democratico dovrebbe aiutare i popoli più sfortunati, trovo che ci sia una ragione anche di relazioni internazionali. La missione all’estero, anche se puramente logistica, consente alla coalizione occidentale di far sì che determinate realtà terroristiche vengano arginate. Isis esiste e non sono io la dimostrazione, l’evidenza l’abbiamo vista in territori occidentali anche in più di un’occasione. Il fatto che in Italia non sia accaduto ancora nulla, e qui facciamo gli scongiuri del caso, non significa che la cosa non ci riguardi. E penso che il trattamento economico sia commisurato: tanti padri e tante madri di famiglia si allontanano per mesi da casa per degli stipendi che non sono così importanti”.

Spesso è stato usato per voi, militari in missione all’estero, l’appellativo di eroi della patria. Ci si riconosce?

Assolutamente no. Questo conflitto non è una guerra, non è un conflitto per il quale si combatte e si muore per la propria bandiera. E’ una missione di pace nella quale si cerca di portare avanti un’idea democratica e si tenta di risollevare le sorti di un luogo depresso e povero. Come in ogni posto dove regna la povertà si fa strada la delinquenza, anche terroristica. Andando in un teatro del genere naturalmente il livello di minaccia si alza e succedono incidenti come questi”.