8 marzo, il malessere delle donne è il malessere della società

Riflessioni sulla Festa della donna: come l’8 marzo si traduce in atti concreti nella società e quali ripercussioni si registrano sulla crescita comune

8 marzo Festa della donna

L’8 marzo è la Festa della donna. L’altra metà del cielo, il focolare domestico, il sesso debole, la genitrice dell’Umanità: quante definizioni per indicare, più o meno romanticamente o in modo discriminante, il ruolo della donna nella società.

Riflessioni sulla Festa della donna: come l’8 marzo si traduce in atti concreti nella società e quali ripercussioni si registrano sulla crescita comune

Siamo della convinzione che il ruolo della donna vada celebrato e sostenuto per 365 giorni all’anno, senza soluzione di continuità. Questo per educare le nuove generazioni al rispetto e alla nonviolenza, per modellare le regole di convivenza civile alla parità di genere, per rimuovere ciò che resta di una anacronistica tradizione patriarcale.

Detto questo, però, siamo anche convinti che l’8 marzo debba restare come Giornata internazionale della donna (leggi qui) non solo per ricordare lutti e sacrifici che la parità è costata ma anche per suscitare riflessioni e indurre analisi sulla condizione del genere femminile non solo nelle società evolute, come la nostra, ma anche e soprattutto in quelle del resto del mondo. La globalizzazione, infatti, ha abbattuto confini e limiti non solo commerciali ma anche fisici, come dimostrano i flussi migratori. E crediamo che determinate culture, se vogliono essere accettate anche nelle società più evolute, debbano rinunciare a barbarie e violenze perpetrate sul genere femminile in nome di tradizioni e religioni discriminanti.

Su tutto questo, abbiamo chiesto a Mara Azzarelli di fare una riflessione che pubblichiamo volentieri. Auguri a tutte voi.

Il parere di Mara Azzarelli

Penso che le donne, più che mai oggi, non abbiano bisogno di retorica o di dibattiti su vecchi clichè. Usate i nomi al maschile o al femminile, ma pretendete che ai nastri di partenza si parta tutti insieme. Nella stessa maniera. E con le stesse possibilità di arrivare al traguardo. Che non ci siano i predestinati al successo, perché maschi. E le sconfitte, a prescindere, perché femmine. Difendiamo il diritto dei bambini e delle bambine, a sognare.

Qualche numero. Nella Capitale il tasso di disoccupazione femminile è più elevato rispetto a quello maschile. Stando ad un’indagine pubblicata su Le mappe della disuguaglianza (di Caterina Bagnulo, Valeria Bellusci, Allison Marcela Carranza Villamar, Serena Fortini, Flavia Scifoni – studentesse del corso di Laboratorio di analisi urbana e regionale, Dipartimento di Economia Aziendale, Università Roma Tre, a.a. 2019-20) le donne disoccupate sono il 9,93% contro l’8,06% degli uomini. Il 65,8% delle donne intervistate ritiene di ricoprire una posizione lavorativa tipicamente associata al proprio genere. Il 15% percepisce il fatto di essere donna come un ostacolo in ambito lavorativo. In generale, nelle donne il livello di soddisfazione in ambito professionale è minore rispetto a quello in ambito personale: più del 60% delle intervistate si ritiene soddisfatta della propria vita privata, mentre solo il 43,8% ritiene di aver raggiunto i propri obiettivi lavorativi prefissati.

Non va meglio a livello nazionale dove il conto presentato dalla pandemia, ancora una volta, è più salato per le donne. Lo scorso primo febbraio, l’ISTAT ha pubblicato i dati riferiti al dicembre 2020 su persone occupate, disoccupate e inattive. In numeri assoluti si parla di 101mila persone occupate in meno nell’ultimo mese del 2020 rispetto a novembre: di queste, 99mila sono donne. Per le donne è calato il tasso di occupazione ed è cresciuto quello di inattività. Su base annua, nel 2020, su 4 posti di lavoro persi 3 sono stati persi da donne.

Durante il lockdown e in tutto il periodo della pandemia le donne hanno faticato di più a trovare lavoro. I contratti firmati dalle donne a Roma e nel Lazio nel 2020 sono stati 161mila ovvero meno 36 per cento rispetto al 2019. Ma non è solo questo il problema. Per loro i contratti sono quasi sempre: flessibili, precari, non garantiti.

Ma cosa significano questi numeri? Sulla mia pagina Facebook ho proposto un gioco, per capirlo. Ho chiesto a madri e padri di mandarmi un pensiero scritto dai loro bambini, maschi e femmine, su cosa vogliono fare o diventare da grandi. Ne sono arrivati tanti. Tra questi ci sono: Nicholas che ha 10 anni e sogna di diventare un cantante famoso o un “fantastico inventore”, Margherita 9 anni che da grande vuole diventare una cantante ed è pronta a studiare tanto per farlo. Elisa che spera di diventare un medico. Matteo che vuole fare il calciatore e Gaia che sogna di curare i bambini. Riccardo che pensa di fare il poliziotto, Martina la parrucchiera e Sofia vuole lavorare sugli aerei. Quei numeri da cui siamo partiti hanno dei nomi e sono anche quelli di questi bambini. O quanto meno un giorno potranno esserlo. Alcuni di loro potranno inseguire i loro sogni, altri no. Alcuni dovranno scegliere se avere una famiglia o avere successo sul lavoro. Altre dovranno rinunciare, quasi subito.

 E quando i sogni si realizzano? Le difficoltà non finiscono.

 In Italia è molto probabile che quelle bambine percepiranno un salario più basso. Per indicare questa disparità salariale in Europa è stata coniata l’espressione gender pay gap che nella sua definizione più semplice è la differenza tra il salario medio di tutti gli uomini e quello di tutte le donne che svolgono un lavoro retribuito. Le donne sono pagate meno per fare lo stesso lavoro svolto dagli uomini, a tutti i livelli professionali. La differenza salariale si verifica in tutti i settori e tipi di occupazione. In generale, più la qualifica professionale è alta, più il divario si allarga. Le manager in Italia guadagnano in media il 23 per cento in meno dei loro colleghi. Il divario salariale tra uomini e donne si calcola su base oraria lorda. Lavorare meno ore a settimana significa portare meno soldi a casa a fine mese, non guadagnare meno soldi ogni ora. Inoltre il lavoro a tempo parziale per le donne non è sempre una scelta ma deriva dalla necessità di prendersi cura dei familiari, dalla mancanza di servizi o è imposto dalle stesse aziende. In Italia il 19,5 per cento delle donne occupate lavora con un part-time non volontario.

Oggi, per la giornata dell’8 marzo, il mio pensiero va dunque a questi numeri e ai sogni di quei bambini e di quelle bambine. E i bambini non sono una questione di genere. I loro sogni e il loro futuro riguardano tutti e tutte. A prescindere dal nome del loro mestiere, se lo coniugheranno al maschile o al femminile, difendiamo il loro diritto di sognare. Pretendendo un paese dove i sogni non siano né maschi né femmine, ma sogni. Da realizzare.

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8 marzo, Festa della Donna: storia di una lunga battaglia