Oltre cinque miliardi all’anno: è questo l’ammontare della vendita di armi da parte dell’Italia a Paesi stranieri al di fuori del nostro sistema di alleanze militari e politiche, spesso in mano a regimi molto poco democratici e a dittatori senza scrupoli. Al primo posto tra le nazioni a cui il nostro Paese fornisce armamenti di ultima generazione c’è l’Egitto, governato dal generale Al Sisi, responsabile della tortura e dell’uccisione del giovane ricercatore Giulio Regeni. Nel 2019 sono state vendute armi all’Arabia Saudita per 96 milioni di euro, e 91 milioni verso gli Emirati Arabi Uniti. I dati emergono dalla Relazione governativa annuale sull’export di armi presentata al Parlamento nei giorni scorsi, analizzata da Greenpeace.
L’Italia non può vendere armi a Paesi in stato di conflitto armato o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, ma esporta forniture belliche a nazioni coinvolte in guerre e a regimi autoritari. E non si tratta di casi isolati: i “due terzi delle nostre commesse vanno a riempire gli arsenali di Paesi fuori dalla Nato e dalla Ue”, si legge nell’ultimo rapporto pubblicato dall’organizzazione ambientalista Greenpeace.
La conferma arriva dall’ultima Relazione governativa annuale sull’export di armamenti, il documento che ogni anno Palazzo Chigi invia al Parlamento in base alla 185/1990, la legge che regola il commercio dei materiali d’armamento nel nostro Paese e che oggi compie 30 anni.
“Nel 2019 il governo”, svela il rapporto di Greenpeace, “ha autorizzato esportazioni di sistemi militari per 5,2 miliardi di euro. Rete Disarmo ha calcolato che nell’ultimo quinquennio il Belpaese ha concesso licenze per un valore quasi pari al totale dei 25 anni precedenti: 44 miliardi di euro contro 53,6″.
Oltre all’aumento del volume, negli ultimi anni l’export militare italiano ha registrato anche un cambio di destinazione, con un ruolo sempre maggiore di nazioni esterne al nostro sistema di alleanze: “il 63% delle autorizzazioni 2019 sono dirette a Paesi extra Alleanza atlantica e Unione europea. L’anno prima questa quota era addirittura il 73%”, afferma il rapporto dell’organizzazione ambientalista.
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